Negli ultimi mesi, numerosi sono stati i casi di cronaca che hanno riportato manifestazioni di dissenso culminate in episodi violenti e distruttivi, quando non veri e propri atti di vandalismo.
Dalle proteste contro il secondo lockdown in Italia [1, 2, 3] alle reazioni post-elettorali statunitensi, non è raro che la disapprovazione assuma un volto minaccioso e aggressivo.
Quali motivazioni spingono a tale rabbia cieca e incontrollata? Come e dove intervenire, a livello personale e sociale, per affrontare il problema?
Abbiamo indagato il fenomeno da un punto di vista psichiatrico e filosofico, pubblicando due news sul blog UniScienza&Ricerca per dare ampio spazio alle riflessioni dei docenti e dei ricercatori dell’Università Vita-Salute San Raffaele.
In questo secondo episodio, che esplora la prospettiva filosofica, risponde per noi la Prof.ssa Roberta Sala, Ordinario di Filosofia Politica presso UniSR e co-Direttrice del CeSEP, il Centro Studi di Etica e Politica dell’Università Vita-Salute San Raffaele.
Escalation di violenza non sono fenomeno raro in contesti di dissenso e di protesta. Escalation, appunto, eccessi in parte prevedibili, che finiscono con lo snaturare sia il dissenso sia la protesta, quali elementi di una legittima conflittualità nell’alveo del gioco democratico.
Che cosa scateni queste forme violente non è interrogativo cui la sola riflessione filosofica possa dare risposta: la ricerca delle motivazioni psicologico-sociali e delle spiegazioni sociologiche non è infatti, per definizione, campo di indagine filosofica. Quel che la riflessione filosofica può e deve fare è innanzi tutto mettere in luce alcune questioni fondamentali.
La prima questione riguarda il significato democratico del dissenso e della protesta. Una democrazia non può fare a meno né dell’uno né dell’altra. Una democrazia che mettesse a tacere il dissenso e la protesta non sarebbe una democrazia.
Essa deve nutrirsi infatti di entrambi, laddove del tutto indesiderabile sarebbe un ideale democratico che non prendesse sul serio il pluralismo dei punti di vista, non affrontasse con le armi che le sono proprie – il dialogo, il confronto, l’alternanza delle voci, l’equilibrio dei poteri, la tutela delle minoranze e così via – la conflittualità tra chi governa e chi è governato e tra i governati nei loro rapporti reciproci.
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La democrazia realizza il suo ideale quando il gioco democratico si svolge all’interno di una fattualità in cui c’è tensione tra istituzioni e individui e tra gli individui nel loro essere portatori di interessi diversi. La domanda è se la violenza rientri in questo gioco, intesa la violenza come potenza distruttiva che rinuncia alla dialettica democratica e opta per la forza bruta.
Veniamo alla seconda questione. Occorre chiedersi perché in una democrazia fattuale si giunga alla violenza. Liquidare la violenza senza interrogarsi sulla sua origine è fare il gioco di chi pensa che gli altri siano “troppo stupidi e volgari per la politica”.
Questo è l’errore più pericoloso. La violenza della protesta è esecrabile tutte le volte in cui viola il principio del non recare danno ad altri, in cui distrugge ciò che è comune a tutti oltre a ciò che appartiene a qualcuno soltanto. Ma chi governa e chi è chiamato a un giudizio politico – cioè il decisore politico e il filosofo politico – non possono non considerare le motivazioni di chi adopera la violenza per far sentire la propria voce.
Considerare le motivazioni significa impegnarsi a distinguere ciò che sta dietro la violenza esibita e che alimenta il barbarismo di chi la esercita. Significa cercare di comprendere:
Nel primo caso, occorre cercare risposta a queste domande: chi sono i nuovi barbari? Che tipo di barbarismo li individua? Dietro il barbarismo c’è una sistematica violazione dei diritti? Una negazione della dignità? La perdita di un posto in una società che dovrebbe riconoscere non solo formalmente dignità e diritti?
Nel secondo caso non c’è altra via che l’esclusione, o, meglio, la ratifica di un’auto-esclusione. Infatti, mera distruzione non è protesta, semmai è pretesto per esprimere insofferenza nei confronti di quelle regole che, condivise dai più, hanno potuto garantire a costoro un’esistenza da free-rider, al riparo dall’assunzione di ogni responsabilità.
Detto questo, escludere chi si auto-esclude non è operazione semplice: non è semplice tracciare il confine tra inclusione ed esclusione, tra chi si auto-esclude perché si sente escluso – come accade in certi contesti di grave deprivazione sociale – e chi si auto-esclude per una senso di improbabile anarchia, per un desiderio sorpassato di sentirsi differenti – in un mondo, peraltro, in cui la differenza è difficile da trovare, un mondo dominato dalla rete che crea poli opposti, nella quale gli individui si confondono e le individualità si dissolvono.
Si possono trovare esempi di vario tipo ad illustrare gli eccessi di violenza, quali quelle innescate recentemente dalle restrizioni al ‘secondo tempo’ del Covid [1, 2, 3]. Alle rimostranze legittime di chi si sente a vario titolo tradito dai provvedimenti restrittivi – lavoratori, studenti ed altre categorie di cittadini – si accostano proteste solo apparentemente innocue, come quelle dei no-mask, come anche, sulla scorta di queste ultime, altre forme di dissenso per nulla democratico, data la messa in atto di condotte che mettono a rischio l’incolumità altrui.
Sottoporre a giudizio politico questa varietà di condotte implica prima di tutto distinguere i livelli della protesta, discernere gli attori che la intraprendono, valutare le ragioni che li muovono. Formulare tale giudizio – questa sì, impresa filosofica – è premessa necessaria per comprendere la protesta, eventualmente per accoglierla, o per contrastarla con determinazione se ciò richiede la tutela del bene collettivo, quali la salute, la sicurezza, la libertà, i diritti di tutti e di ciascuno.
[1] https://napoli.repubblica.it/cronaca/2020/10/23/news/napoli_protesta_coprifuoco-271649931/
[3] https://www.milanotoday.it/attualita/coronavirus/manifestazione-proteste-31-ottobre-2020.html