A partire dal fenomeno “Barbenheimer”, sul quale Ryan Goslin ed Emily Blunt hanno ironizzato durante la serata di premiazione degli Oscar [1], sembra che negli ultimi tempi vi sia stato un vero e proprio ritorno alla sala cinematografica, nonostante la proliferazione di piattaforme digitali dove consumare, in modo diverso, prodotti seriali o comunque destinati al più o meno piccolo schermo di casa.
È stato l’anno di film d’autore che hanno conquistato il grande pubblico, intercettando una categoria che sta tra il blockbuster e la firma, come nel caso di Oppenheimer di Cristopher Nolan ma anche in quello più ambiguo di Barbie, diretto da Greta Gerwig, che probabilmente aprirà al Mattel Cinematic Universe.
È stato anche l’anno in cui sono stati prodotti film di lunga durata, in controtendenza rispetto alla serializzazione e soprattutto alla frammentazione del consumo audiovisivo in segmenti sempre più brevi, come nel caso di Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, anch’esso candidato agli Oscar, o del meno convincente (ma non per la durata) Napoleon di Ridley Scott.
Questo fermento insolito potrebbe anche concretizzarsi come una risposta ferma del medium cinematografico alla contaminazione con altri linguaggi mediali, più brevi, rapidi, di superficie, rivendicando la propria capacità di scandagliare la complessità del contemporaneo.
In tutte le opere in corsa per la statuetta, infatti, si vede un cinema che sa pensare.
A partire dall’ultima fatica di Nolan [2], che mette in scena un’America che rielabora uno dei suoi peccati originali, il quale, al contempo, ha consentito l’affermazione definitiva della sua potenza. In che modo vanno ripensate le domande filosofiche ed etiche quando l’uomo, che pure rimane un essere finito, può adesso potenzialmente “bruciare il cielo” e compromettere la continuazione della vita sul pianeta?
Il film di Nolan, tra il processo farsa condotto segretamente da Lewis Strauss e il viaggio nelle immagini interiori di Oppenheimer, tese tra erotismo e scenari di distruzione, si chiede che tipo di reazione fisico-chimica ha innescato questa nuova possibilità dell’uomo, che, lungi dall’essere un esperimento controllato in un’area deserta, ha spazzato via migliaia di vite umane.
Nolan, e con lui Oppenheimer (e con loro, forse, l’America) non ci mostrano l’evento di Hiroshima e Nagasaki, ma esso ritorna sottoforma di fantasma e presagio negli incubi dell’inventore della bomba atomica, che sempre di più comprende che quell’atto non ha sancito la fine della guerra, ma ha aperto una nuova era dove l’uomo diventa sempre più responsabile del proprio destino.
Ma ancora più di Oppenheimer è lo straordinario La zona d’interesse di Jonathan Glazer a insistere sullo sguardo situato dell’uomo, sul fatto che ci troviamo sempre a osservare il mondo attraverso una esposizione selettiva.
Con un lavoro sul sonoro che entrerà nella storia del cinema, Glazer ci mostra il giardino ben curato di una “normale” famiglia borghese tedesca ai confini del campo di Auschwitz, dove tutti guardano i fiori, l’orto, la piccola piscina per i bambini mentre si vede sullo sfondo il fumo del forno crematorio e si sentono le urla dei prigionieri. Quando il protagonista, Rudolf Höss, chiede a un collega «Hai sentito?» noi spettatori pensiamo si riferisca all’orrore delle grida degli ebrei, mentre lui fa tranquillamente riferimento al verso dell’airone cenerino che sembra continuare a garantire una sorta di bontà della natura.
Il film ci svela tutti i dispositivi di adiaforizzazione e di volontario silenziamento della bussola morale dei protagonisti, che si appropriano degli oggetti di lusso degli ebrei confinati nel campo, che ordinano l’efficientamento del forno crematorio come se stessero parlando della crescita di una qualsiasi altra azienda, che illustrano ai loro ospiti il tanto agognato prestigio sociale che si sono conquistati nella loro limitata e claustrofobica zona di interesse.
Solo le immagini polarizzate e “in negativo” di una ragazza polacca che semina le mele per i prigionieri del campo ci sembrano sfuggire a questa logica di negazione e disumanizzazione, che traccia un preciso confine tra ciò che succede realmente, in tutto il suo orrore, come i teschi che ritornano nel fiume durante un pomeriggio trascorso in famiglia, e ciò che si sceglie di vedere e ciò che si vuole deliberatamente ignorare.
Come ha dimostrato anche il regista durante il suo discorso di accettazione della prestigiosa statuetta [3], il suo film non si limita a parlare dell’Olocausto, ma è un appello alla nostra responsabilità morale di fronte a ogni atto di disumanizzazione che viene compiuto nel mondo, giustificato e sostenuto da determinati dispositivi militari, tecnologici, ma soprattutto retorici, si tratti dello sterminio degli ebrei compiuto dal nazismo o del massacro dei civili a Gaza.
Infine, il cinema di questa edizione degli Oscar elabora e ripensa le questioni di identità e di emancipazione sia per quanto riguarda il tema del razzismo e di che cosa significhi essere afroamericani negli Stati Uniti con American Fiction (miglior sceneggiatura originale), sia per quanto concerne il percorso di soggettivazione femminile di un esperimento grottesco in una possibile ucronia vittoriana (Poor Things) in cui Bella Baxter si trova a vivere nel corpo di una donna con il cervello di un neonato - una straordinaria Emma Stone, premiata come miglior attrice.
Se il primo è una commedia che gioca sugli stereotipi che i bianchi hanno nei confronti degli afroamericani (e viceversa), ma soprattutto sul facile bisogno di lavarsi la coscienza senza lavorare concretamente a un’integrazione paritaria, il controverso film di Yorgos Lanthimos ci sfida in modo più brutale a seguire un percorso di emancipazione dettato dalla sperimentazione senza limiti morali(stici) e da una sorta di meccanicismo dell’esperienza che ci interroga, di nuovo, sui nostri pregiudizi sociali e su tutti i tentativi di razionalizzazione e di castrazione degli istinti che, teoricamente, dovrebbero garantire una più pacifica convivenza sociale.
Un cinema che pensa questi temi, ne svela le contraddizioni, senza voler proporre una facile tesi o una semplificazione della realtà, è sicuramente un cinema in grado di fare filosofia.
References
[1] Oscars 2024: Ryan Gosling and Emily Blunt exchange playful barbs at the Academy Awards https://www.youtube.com/watch?v=kriaFd5Sggk
[2] Per un’analisi più specifica del film di Nolan su questo blog si veda https://blog.unisr.it/oppenheimer-benefattore-umanita-distruttore-mondi
[3] Jonathan Glazer calls out Israel's weaponisation of the holocaust https://www.youtube.com/watch?v=3ymiyNmr1WY.