Né biopic né film storico, bisogna chiedersi di che cosa parli realmente l’ultima fatica di Nolan. Stando al titolo, di Robert J. Oppenheimer, il padre della bomba atomica, colui che viene definito “l’uomo più significativo del suo tempo”. Questo implica essere, insieme, colui che meglio rappresenta lo spirito della propria epoca e colui che è in grado di trasformarla radicalmente, prodotto della storia e produttore di storia. Come giustamente sottolinea Malavasi, questo richiama «l’attrazione, filosofica e morale, [di Nolan] per il dramma di uomini che sperimentano il potere di cambiare l’ordine delle cose – di una città, della realtà, di una mente; nel caso di Oppenheimer, del mondo, per sempre» [1].
A sinistra, il fisico Julius Robert Oppenheimer (1904-1967); photo credit: Ed Westcott, c. 1946. A destra, Cillian Murphy, l'attore che lo intepreta nel film "Oppenheimer" (2023) diretto da Christopher Nolan.
Quella che si affaccia sullo schermo, in un intrecciarsi di flashback e flashforward, è un’epoca (ancora la nostra, oltre il secolo breve) in cui i paradigmi dell’etica tradizionale sembrano incastrati in un cortocircuito, perché il loro criterio di universalità non risulta più valido rispetto alle urgenze di un momento in cui l’uomo, per la prima volta, può compromettere la vita dell’intero pianeta.
Le domande dell’etica sono sempre state pensate per quell’essere finito che era l’uomo; come devono cambiare quelle questioni se sono rivolte a un essere che può bruciare perfino il cielo? Così come si arriva, tramite fissione e fusione, alla bomba atomica, così il mondo, la morale, le possibilità dell’uomo si trasformano in questo passaggio imprevisto dalla teoria alla realtà.
Il film inizia con un riferimento esplicito al mito di Prometeo. Tuttavia, qui non vi è alcuna punizione divina, ma solo un processo-farsa dove vengono fatte le domande sbagliate: è l’inefficace e arbitraria giustizia degli uomini, dove la caccia al responsabile diventa una strategia di diffamazione per soddisfare l’invidia di chi non si avvicina alle grandi menti tragiche dell’umanità, che comprendono l’ambiguità e perfino l’orrore di quello che era stato chiamato ingenuamente “progresso”.
In quel processo a porte chiuse, piccolo inferno privato, le domande spiazzano ancora più delle risposte: il dilemma morale, che sta torturando Oppenheimer, non viene mai formulato chiaramente.
Gli si chiede se avrebbe tradito la sua patria, quali fossero realmente i suoi rapporti con i comunisti, come mai (problema di coerenza!) aveva sostenuto la creazione della bomba atomica ma non di quella all’idrogeno. Come se la coscienza morale si dovesse fondare su un calcolo di continuità, basato su un principio che non si può che ripetere: la bomba H non è il naturale passo successivo? In questo senso, Oppenheimer è un film sull’incommensurabilità, sul dilemma che stiamo vivendo anche oggi, dove, nell’era dei big data, la quantità diventa qualità.
La presunta continuità della scienza è qui assillata da un pensiero dell’interruzione, che con la sua discontinuità è in grado di segnalare i salti radicali e irreparabili che a un certo punto della storia l’uomo è in grado di fare. La continuità che viene messa in discussione è quella della saldatura tra sapere e potere; chi sa di più potrà di più: ma, appunto, l’etica è fuori gioco, perché qui “potere” significa pura possibilità, senza alcuna connotazione normativa.
Ma lui lo sa: anche dopo l’esplosione, soprattutto dopo, tutto è presagio. In quel tempo a colori dove non si discute retoricamente, è in gioco il segreto della vita, quella forza di attrazione e distruzione che sta alla base della meccanica quantistica, presentata da Oppenheimer come un gioco di seduzione senza fine, vera reazione a catena imponderabile.
È così quando la racconta alla sua amante, con la quale compie un atto sessuale mentre evoca Vishnu, il distruttore dei mondi del Bhagavad Gita. Come riporta Strano, «Era solo questione di tempo prima che il suo cinema incontrasse di petto la propria matrice storica, confrontandosi con la fisica quantistica […]. Oppenheimer è il punto di arrivo di questo progetto ormai più che ventennale, la finalizzazione del proprio discorso sul cinema come struttura pensata per rendere oggettivamente visibili ed esperibili le nuove condizioni della conoscenza».[2]
Non è un caso che Nolan non ci mostri l’esplosione in Giappone: a lui interessa l’esperienza di uno spettatore situato (come era la guerra negli occhi dei soldati di Dunkirk). L’esperienza è quella di Oppenheimer, che rivede, nella sala in cui lo celebrano, la ripetizione sonora e visiva, che è insieme profezia, di cosa è accaduto laggiù, in un luogo evocato come lista di siti da colpire (se si esclude Kyoto, perché lì qualcuno ha dei ricordi, simbolo dell’arbitrarietà delle decisioni del governo americano, colpevole mai processato).
Oppenheimer voleva solo finire tutte le guerre del mondo. Ma, come Nolan insegna fin dai suoi primi film, il tempo non è quello che pensiamo. Quello che per Oppenheimer era la fine, anche se catastrofica, ma definitiva, di una preistoria dell’umanità, è solamente l’inizio di un’altra barbarie, una nuova rovina che stavolta non sarà fermata da alcun Dio. Le immagini del suo desiderio, che dominano la prima parte del film, diventano allora incubi, fino a rovesciare la dimensione erotica della scienza, legata alla scoperta, all’intuizione, al viaggio nell’ignoto, nella dimensione tanatologica più radicale: un cielo, vuoto, che si infiamma e annienta tutto.
Nessun colpevole, nessun innocente: il processo è sempre una farsa. Allora, l’impresa morale qui è compiuta dal dispositivo del cinema, che può rendere visibile l’invisibile, materializzare il desiderio, ma anche il suo rovesciamento in incubo, in un esperimento che richiama quello di Los Alamos, set di costruzione di qualcosa che non era mai stato visto finora.