Spesso li abbiamo in casa, magari avanzati da una cura precedente. Gli antibiotici sono farmaci preziosi nel trattamento delle infezioni batteriche, che possono salvare vite e alleviare i sintomi di malattie altrimenti gravi quando usati correttamente.
Tuttavia, questi farmaci non possono essere usati con leggerezza, bensì richiedono un atteggiamento consapevole che tenga conto non solo delle conseguenze sulla propria salute, ma anche su quella della collettività: ogni impiego improprio favorisce la selezione di ceppi resistenti, ossia quei batteri capaci di sopravvivere all’azione antibiotica.
Per questo motivo, il 18 novembre si celebra la Giornata Europea dell’Uso Consapevole degli Antibiotici, un’occasione per riflettere su un tema cruciale di salute pubblica che unisce scienza e società.
In occasione di questa ricorrenza, abbiamo intervistato il Professor Carlo Martini, Associato di Epistemologia e Filosofia della Scienza UniSR, per capire come bias cognitivi e convinzioni radicate possano influenzare la nostra consapevolezza sull’uso di questi farmaci.
Utilizzare correttamente gli antibiotici non significa solo rispettare le prescrizioni del proprio medico, che rimane un atteggiamento indispensabile per la buona riuscita di una terapia, ma anche acquisire una certa consapevolezza verso il loro uso improprio, spesso favorito dall’azione di bias o distorsioni cognitive che ci guidano anche nelle scelte sanitarie.
Quali sono, quindi, le distorsioni cognitive che guidano le nostre scelte in ambito sanitario? Questa domanda è di carattere squisitamente epistemologico: l’epistemologia, dal greco antico epistḗmē, “conoscenza”, e traducibile come lo “studio della conoscenza”, è la disciplina che studia come la conoscenza si acquista e si trasmette. Ed è proprio in quanto si occupa di trasmissione che l’epistemologia, e in particolare l’epistemologia sociale, mostra come ciò che crediamo di conoscere sia in realtà filtrato da bias o distorsioni cognitive – le “scorciatoie mentali” che tendono a farci deviare dal razionale e a farci influenzare nei nostri giudizi e nelle nostre decisioni – ma anche da pregiudizi e preconcetti.
Sono due i fattori che, come spiega il Professor Martini, rendono il tema dell’uso improprio degli antibiotici una questione anche epistemologico-filosofica.
Il primo riguarda, naturalmente, la trasmissione della conoscenza: le informazioni scientifiche sull’uso corretto dei farmaci spesso non vengono condivise chiaramente con le persone non esperte. “Il caso emblematico per eccellenza è quello dell’influenza”, commenta Martini. “Si tratta di una malattia di origine virale, che provoca sintomi ben riconoscibili come febbre o mal di gola e contro cui spesso si può pensare, erroneamente, che gli antibiotici possano avere effetto. Risulta così necessario far conoscere, per esempio, la differenza tra un’infezione virale e una batterica, una distinzione cruciale per un corretto piano terapeutico”.
Il secondo fattore riguarda invece i bias cognitivi, come la distorsione cognitiva dell’illusione di controllo. Questa distorsione cognitiva ci illude che le nostre azioni possano avere un effetto sugli esiti anche se, di fatto, non hanno alcun potere su di essi. “Spesso crediamo di poter indurre effetti positivi attraverso azioni o comportamenti che non sono veramente influenti, come nel caso dell'assunzione di antibiotici per le infezioni virali” chiarisce il Professore. Il solo fatto di assumere un farmaco può spingere la persona a pensare di aver agito proattivamente e di aver contribuito alla guarigione, anche se in questo caso la guarigione è il frutto di processi naturali dell’organismo.
Una divertente analogia ci viene dai semafori pedonali con pulsante: spesso il pulsante non cambia il tempo di attesa, accelerando i tempi della comparsa del “verde”, ma fornisce al pedone la sensazione di aver attivato qualcosa, di avere il controllo della situazione, di star aspettando meno tempo prima che possa attraversare la strada. “Lo stesso principio può spiegare il motivo per cui alcune persone assumono antibiotici anche quando non sono necessari: il solo atto di prenderli fornisce una sensazione di conforto e alimenta l'illusione di aver fatto qualcosa di proattivo per accelerare la guarigione” dice Martini, che aggiunge: “questo fenomeno rispecchia una nostra esigenza, l’esigenza di fare qualcosa, che, anche se non apporta alcun beneficio, spesso ci fa sentire più sereni, mentre non fare nulla ci preoccupa. Per questo motivo, spesso prendiamo antibiotici anche quando non sono utili, convinti che possano avere un effetto positivo”.
Un ulteriore fattore che incide sulla scelta di un antibiotico è rappresentato dalle esperienze personali passate con il farmaco.
Un interessante studio mette in luce come l'uso eccessivo e scorretto degli antibiotici sia spesso guidato dalle aspettative dei pazienti, che li richiedono convinti dalle esperienze positive di quando sintomi simili erano scomparsi rapidamente grazie a una terapia antibiotica. Le esperienze personali accumulate nel tempo, così, “possono rafforzare l'idea, errata, che gli antibiotici siano sempre necessari e che assumerli in qualche modo possa aiutare a stare meglio” commenta il Professore. In realtà, questa distorsione cognitiva deriva da un meccanismo evolutivo che spesso ci induce a interpretare gli eventi in termini di causa ed effetto: “fin da piccoli, apprendiamo attraverso l'esperienza con l'ambiente che ci circonda, e sviluppiamo la tendenza a vedere il mondo in termini di un prima e un poi, di cause ed effetti,” spiega Martini, aggiungendo: “spesso confondiamo una semplice correlazione con un rapporto causale tra due eventi.”
Così, “se in passato ho preso un antibiotico per un'infezione virale e ho notato un miglioramento, potrei erroneamente pensare che il farmaco sia stato efficace, quando in realtà il miglioramento era dovuto al decorso naturale della malattia, che sarebbe avvenuto comunque, indipendentemente dall'assunzione dell'antibiotico,” chiarisce il Professore.
Spesso il gesto di assumere un antibiotico ci sembra irrilevante ed innocuo. “Pensiamo che, nel peggiore dei casi, il farmaco sarà inutile o che avremo al massimo avremo qualche piccolo effetto collaterale”, spiega il Professore. Quando, tuttavia, milioni di persone fanno la stessa scelta, l’impatto sulla salute collettiva diventa urgente. Questo è l’effetto cumulativo: piccoli comportamenti individuali si sommano e producono un risultato collettivo significativo.
L’uso inappropriato e ripetuto di antibiotici da parte di ciascun individuo ha un impatto cumulativo sulla resistenza batterica nella comunità, generando quel fenomeno noto in economia con il nome di esternalità – ossia la capacità di generare un effetto (positivo o negativo) su persone o cose che non partecipano direttamente all’azione che lo determina. In ambito sanitario, infatti, i costi della resistenza non ricadono sul singolo paziente che assume l’antibiotico, ma a lungo termine ricadono sull’intera società e sul sistema sanitario. In altre parole, il problema della resistenza si manifesta solo quando gli effetti delle numerose prescrizioni inappropriate si sommano nel tempo.
La sfida risiede dunque nella capacità di pensare cumulativamente: “ci è difficile, infatti, percepire le probabilità reali di un danno collettivo a partire dalla singola azione individuale” spiega il professor Martini. “L’antibiotico-resistenza è proprio il principale risultato di questo effetto cumulativo. Ogni volta che utilizziamo scorrettamente gli antibiotici favoriamo, poco alla volta, la selezione di batteri resistenti. Singolarmente sembra un evento trascurabile, ma la ripetizione di milioni di questi piccoli episodi, nel tempo, costruisce un problema globale: infezioni sempre più difficili da trattare, cure meno efficaci, costi sanitari sempre maggiori”.
I bias cognitivi agiscono silenziosamente influenzando la maggior parte delle scelte che compiamo ogni giorno, anche di carattere sanitario.
“Così, il tema degli antibiotici non si limita alla sola discussione medico-scientifica, bensì richiede un approccio interdisciplinare” commenta Martini, che aggiunge: “Medicina, psicologia e filosofia non devono intendersi separatamente, bensì come discipline complementari in grado di fornirci strumenti per indagare i fenomeni complessi del nostro tempo”. La medicina ci offre i mezzi per osservare e spiegare i fenomeni del nostro corpo, la psicologia indaga la mente umana nei suoi processi decisionali, mentre la filosofia ci guida a interrogare i metodi, a riflettere sull’eticità delle scelte sanitarie e a valutare le implicazioni sociali delle nostre azioni. “Solo integrando queste prospettive possiamo costruire una conoscenza davvero consapevole, capace di orientare comportamenti responsabili e di affrontare sfide urgenti come la resistenza agli antibiotici” conclude il Professore.
Intervista a cura di Andrea Iotti