Leggere, vuole l’adagio, costa fatica. Nel contesto dell’ecologia mediale sovraffollata e iper-stimolante in cui siamo inseriti, nella quale videogames, immagini, video, musica diffusa quasi in ogni spazio pubblico, notifiche che vibrano nel nostro taschino e news feed in costante aggiornamento si contendono voracemente la nostra attenzione [1], uno strumento come il libro sembrerebbe naturalmente destinato a marginalizzarsi e scomparire.
I dati sulle abitudini di lettura, anche recenti [2], sembrano però dirci il contrario.
Il mercato editoriale è in crescita sia in Italia che all’estero e gli anni della pandemia hanno segnato addirittura un’accelerazione di questo trend positivo. Come spiegarlo?
Rispondere esaustivamente a questa domanda richiederebbe di interpellare scienziati della comunicazione, economisti, sociologi delle arti e della cultura, e ancora antropologi, psicologi, teorici letterari.
Anche dalla tradizione filosofica, ad ogni modo, provengono spunti interessanti sulla questione. Penso ad esempio a quelli offerti da Stanley Cavell, un filosofo americano che ci ha lasciati non molti anni fa, nel 2018.
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Nel suo Condizioni ammirevoli e avvilenti [3], Cavell stava provando a tracciare i lineamenti di una concezione pratica e trasformativa della filosofia che definiva lì, per la prima volta, «perfezionismo emersoniano». La filosofia, sosteneva, non deve essere necessariamente concepita come impresa unicamente teoretica e speculativa, come indagine sui fondamenti della conoscenza o costruzione di teorie.
Il suo sapere, o per meglio dire il suo esercizio, possono essere intrapresi altrettanto con il fine del cambiamento di sé e della costruzione del carattere [4], come strumento di quello che lo psicologo analitico Carl Gustav Jung ha chiamato «processo di individuazione» [5] e che Friedrich Nietzsche, pochi anni prima, aveva compendiato col celebre, per quanto abusato, motto «divenire ciò che si è» [6].
Il libro, sosteneva Cavell, in questa tradizione e concezione della filosofia ha un ruolo significativo. Da Platone e Aristotele fino a Emerson e Nietzsche, i pensatori che Cavell chiama “perfezionisti” hanno spesso attribuito al rapporto con un altro – un maestro, un amico, il compagno o la compagna in una relazione amorosa – un’importante funzione di catalizzatore del cambiamento personale. È però proprio il libro stesso, secondo Cavell, a poter essere visto in quest’ottica come esempio privilegiato di tale altro, di tale amico perfezionista che, come Socrate, ci chiama in causa, ci chiede di rendere conto del modo in cui stiamo vivendo e offre esemplarmente una testimonianza di quello che potremmo diventare.
Se nonostante tutto continuiamo a leggere libri (di filosofia così come di altri generi letterari e discipline di pensiero), allora, è forse anche perché, nell’assorbimento silenzioso che essi richiedono, nel tempo prolungato in cui ci legano a sé, nell’ampiezza dei pensieri e nel carattere a volte indefinibile, ma palpabile, dello stile di scrittura che da essi promanano, ci permettono di entrare in contatto con un altro essere umano, di sentirne la voce, lasciare che essa ci interroghi, e di farlo in modi che altri medium e forme espressive non potrebbero sostituire.
[1] Si veda a questo proposito Y. Citton, Pour une écologie de l'attention, Seuil 2014.
[2] https://www.ibs.it/rapporto-sullo-stato-dell-editoria-ebook-vari/e/9788899630188
[3] S. Cavell, Condizioni ammirevoli e avvilenti. La costituzione del Perfezionismo Emersoniano, Armando Editore 2014.
[4] Michel Foucault aveva proposto una visione della filosofia analoga nei suoi corsi degli anni Ottanta sul pensiero tardo-antico, ad esempio in L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli 2003.
[5] C. G. Jung, Coscienza, inconscio e individuazione, Bollati Boringhieri 2013.
[6] F. Nietzsche, Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, Adelphi 1991.