“In Italia, sono circa 300.000 le persone che convivono con una diagnosi di tumore alla vescica, una patologia che colpisce prevalentemente gli uomini. Difatti, su sette pazienti su dieci sono di sesso maschile”, spiega il Prof. Andrea Necchi, coordinatore della Disease Unit di Tumori alla Vescica presso l’Ospedale San Raffaele e associato di Oncologia Medica all’Università Vita-Salute San Raffaele.
Abbiamo incontrato il Professor Necchi insieme alla Dott.ssa Valentina Tateo e al Dott. Antonio Cigliola, medici oncologi del nostro Ospedale, per fare una panoramica aggiornata sui tumori alla vescica. In particolare, una delle linee di ricerca del gruppo guidato dal Professore si concentra sullo studio di nuove strategie terapeutiche per trattare il tumore alla vescica muscolo-infiltrante.
La vescica è l’organo in cui si raccoglie l’urina prodotta dai reni prima di essere espulsa all’esterno del corpo. La parete vescicale è formata da strati di cellule collocati a diverse profondità. Quando le cellule tumorali invadono il più profondo strato muscolare si parla di tumore alla vescica muscolo-infiltrante.
Questa neoplasia rappresenta circa un quarto di tutti i tumori che interessano la vescica e si presenta in una forma aggressiva e capace di generare metastasi. Solitamente, il suo trattamento prevede la chemioterapia a base di cisplatino, un farmaco che blocca la sintesi di nuovo DNA e, di conseguenza, la divisione delle cellule, seguita dalla cistectomia radicale, un’operazione chirurgica altamente invasiva.
“I pazienti vengono indirizzati dapprima alla chemioterapia, che ha lo scopo di ridurre la massa tumorale, seguita dalla cistectomia radicale, un intervento chirurgico che consiste nella rimozione della vescica, dei linfonodi pelvici, della prostata negli uomini e degli organi genitali nelle donne”, spiegano i dottori Tateo e Cigliola.
“Tuttavia, la chemioterapia preoperatoria con cisplatino viene somministrata solo nel 20% dei pazienti con tumore alla vescica muscolo-infiltrante. Circa il 50% delle persone con questo tumore infatti non possono ricevere chemioterapia preoperatoria con il cisplatino a causa di condizioni preesistenti, mentre un’altra frazione dei pazienti rifiuta la chemioterapia.”, aggiunge il Professor Necchi.
In aggiunta, le persone che soffrono di questa neoplasia spesso rifiutano anche la cistectomia radicale, considerata la sua invasività e l’impatto che può avere sulla qualità della vita e la salute psicologica.
Per queste ragioni, la ricerca sta lavorando attivamente per offrire a queste persone alternative terapeutiche meno impattanti per rimuovere il tumore e prevenirne la ricomparsa, conservando, allo stesso tempo, la vescica e gli altri organi.
In quest’ottica, il Professor Necchi si dedica da anni alla ricerca nell’ambito dell’immunoterapia dei tumori per mettere a punto strategie alternative alla chemioterapia preoperatoria e ridurre drasticamente il successivo ricorso alla chirurgia radicale nel trattamento dei tumori alla vescica muscolo-infiltranti.
L’immunoterapia dei tumori ha lo scopo di potenziare la risposta del sistema immunitario contro le cellule tumorali. Gli inibitori dei checkpoint immunitari sono un esempio di farmaci immunoterapici. Essi rimuovono il freno che blocca l’attività dei linfociti T, le cellule del sistema immunitario che attaccano e neutralizzano gli agenti estranei o nocivi al nostro organismo. Rimuovendo il freno, gli inibitori dei checkpoint immunitari fanno sì che i linfociti T attacchino ed eliminino anche le cellule tumorali.
Già nel 2018, il nostro Ospedale era stato capofila di uno studio che aveva mostrato che il trattamento di immunoterapia con l’inibitore dei checkpoint immunitari pembrolizumab, somministrato prima della cistectomia radicale, aveva portato a una riduzione o addirittura alla scomparsa del tumore alla vescica muscolo-infiltrante in una frazione dei pazienti trattati, che però avevano dovuto comunque sottoporsi alla cistectomia radicale. Il farmaco pembrolizumab agisce bloccando una proteina chiamata PD-1, il “freno” che normalmente inibisce l'attivazione delle cellule T. In questo modo, esse possono attivarsi in modo più efficace contro le cellule tumorali e ucciderle.
“Questi risultati indicarono che l’immunoterapia preoperatoria con i farmaci come pembrolizumab poteva rappresentare un’alternativa promettente alla chemioterapia per indirizzare e facilitare la chirurgia successiva. Tutti i pazienti di questo studio del 2018, però, necessitavano ancora della chirurgia radicale”, commenta il Professor Necchi. “Per questo motivo, oggi il nostro obiettivo è ancora più ambizioso: vogliamo cioè evitare del tutto l’intervento chirurgico radicale”.
A questo proposito, lo scorso giugno il Prof. Necchi e il suo gruppo hanno presentato al congresso annuale di ASCO, la Società Americana di Oncologica Clinica (dall’inglese, American Society of Clinical Oncology), i primi risultati di uno studio clinico che si propone di utilizzare gli inibitori dei checkpoint immunitari in combinazione con gli anticorpi farmaco-coniugati per potenziare l’efficacia dell’immunoterapia e portare a una scomparsa del tumore tale per cui la successiva cistectomia radicale non si renda più necessaria.
Gli anticorpi farmaco-coniugati sono farmaci che combinano (“coniugano”) un anticorpo – capace di riconoscere in modo specifico le cellule tumorali – con un farmaco chemioterapico che di solito agisce bloccando la moltiplicazione di queste ultime, portandole alla morte.
La combinazione di anticorpo e chemioterapico fa sì che questi farmaci colpiscano il tumore in modo più mirato e circoscritto, poiché il chemioterapico viene rilasciato direttamente all’interno delle cellule cancerose – bloccando la crescita del tumore.
Nello studio clinico presentato ad ASCO, 40 pazienti con tumore alla vescica muscolo-infiltrante hanno ricevuto la terapia combinata con pembrolizumab e sacituzumab, un anticorpo farmaco-coniugato, da somministrare prima dell’intervento chirurgico.
In circa il 44% dei pazienti trattati, la risonanza magnetica ha mostrato una remissione significativa del tumore. Sulla base di tale risultato, a questi pazienti è stato proposto un intervento chirurgico meno invasivo della cistectomia radicale per rimuovere le eventuali cellule tumorali residue.
Quest’intervento, chiamato resezione transuretrale del tumore vescicale, consiste nell’introdurre uno strumento sottile attraverso l’uretra (il condotto che collega la vescica all’esterno del corpo) per “raschiare” il tumore residuo. È un’operazione meno invasiva, che ha il vantaggio di risparmiare alla persona la rimozione della vescica e di altri organi.
Successivamente alla resezione transuretrale, i pazienti hanno ricevuto il solo pembrolizumab fino a un anno dopo l’intervento, come terapia di mantenimento volta a prevenire l’eventuale ricomparsa del tumore.
“È importante sottolineare che i dati raccolti in questo studio sono ancora preliminari e basati su un numero di pazienti ancora troppo piccolo per poter trarre conclusioni robuste e definitive. Sarà necessario dunque confermare questi risultati su un maggior numero di casi attraverso ulteriori studi", precisa il Professor Necchi.
"Ciononostante, crediamo che questa linea di ricerca possa contribuire a cambiare l’approccio terapeutico finora adottato, per il quale la terapia medica – cioè l’uso di farmaci o altri trattamenti non chirurgici – è stata impiegata soprattutto come supporto alla chirurgia, che oggi rimane l’opzione principale per trattare i tumori alla vescica. L’idea è di ribaltare questa visione, puntando a un futuro in cui, almeno in alcuni casi, sarà la terapia medica l’opzione principale nel trattamento di questi tumori, relegando la chirurgia a un ruolo sempre più marginale".
Questi risultati sono frutto di un grande lavoro multidisciplinare che viene svolto ogni giorno da urologi, oncologi e chirurghi, i quali, oltre a dedicarsi alla cura dei propri pazienti, guidano studi di ricerca clinica e traslazionale che forniscono una maggiore comprensione di queste malattie, consentendo la definizione di terapie sempre più personalizzate
L’approccio multidisciplinare alla persona e alla malattia e la sinergia tra ricerca traslazionale e ricerca clinica sono tratti distintivi dell’attività formativa e di ricerca dell’Università Vita-Salute San Raffaele. Studiare al San Raffaele significa, infatti, acquisire conoscenze e sviluppare competenze tramite una didattica che combina direttamente l’attività clinica con quella di ricerca.
“Come ricercatori, per noi è molto stimolante avere la possibilità di contribuire con le nostre idee e le nostre proposte agli studi clinici fatti per testare nuove strade terapeutiche. Vedere le nostre idee prendere forma nell’attività di ricerca, raccogliere dati, interpretarli ci motiva sia come ricercatori, curiosi del funzionamento del corpo umano, che come medici che devono sfruttare questa comprensione per poter sviluppare le migliori cure possibili per i nostri pazienti”, concludono il Professor Necchi, la Dottoressa Tateo e il Dottor Cigliola.