«Scusate se mantengo il telefono vicino mentre parliamo, ma sto aspettando una chiamata perché devono consegnarmi delle cellule», dice la Dottoressa Francesca Ferrua, mentre ci accoglie in uno degli uffici nell’Unità di Immunoematologia Pediatrica dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, diretta dal Professor Alessandro Aiuti, ordinario UniSR di Pediatria e Vicedirettore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget).
Pediatra e dirigente medica, la Dottoressa Ferrua ha avuto una formazione targata interamente UniSR: si è laureata presso la nostra facoltà di Medicina e Chirurgia (Attuale Preside: Prof.ssa Sonia Maria Rosa Levi), per poi proseguire con Specializzazione in Pediatria sotto la supervisione del Professor Aiuti e infine ottenere un Dottorato di Ricerca Internazionale in Medicina Molecolare (Attuale coordinatrice: Prof. Alessandra Bolino) con curriculum in Immunologia e Oncologia di base e applicate (Attuali Responsabili di Curriculum: Prof. Paolo Ghia e Prof.ssa Mirela Kuka.) sotto la supervisione della Dottoressa Anna Villa.
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La Dott.ssa Francesca Ferrua
Dall’inizio della sua specializzazione e per i successivi 15 anni, la Dottoressa Ferrua ha seguito gli studi clinici di sicurezza ed efficacia della terapia genica per la sindrome di Wiskott-Aldrich, una rara immunodeficienza genetica.
Ed è del 9 dicembre scorso la notizia che la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato negli Stati Uniti proprio questa terapia genica, che solo qualche settimana prima aveva ricevuto il parere positivo all’immissione in commercio dell’EMA, l’Agenzia Europea per i Medicinali.
Questo straordinario traguardo emerge da un percorso che intreccia ricerca di base, condotta nei laboratori dell’SR-Tiget, e sperimentazione clinica svolta presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele.
Un percorso lungo 35 anni, durante i quali un’intera generazione di scienziati/e ha lavorato per capire le basi biologiche della malattia e trovare un’alternativa al trapianto di midollo osseo, lo standard terapeutico per le persone con sindrome di Wiskott-Aldrich, per coloro che non possono beneficiare di un donatore familiare compatibile.
Tra questi/e specialisti/e c’è anche la Dottoressa Ferrua, che noi abbiamo incontrato per ascoltare la storia di un’alumna UniSR che diventa medica e poi ricercatrice con un obiettivo preciso: cambiare la vita delle persone.
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Dottoressa, come mai ha deciso di iscriversi a Medicina e Chirurgia in UniSR?
Quando, alla fine del liceo, dovevo scegliere l’università non ho avuto molti dubbi una volta conosciuto il modello San Raffaele: ospedale, università e laboratori di ricerca tutti concentrati nello stesso campus e in stretta connessione tra loro.
Questa sinergia era ed è qualcosa di unico rispetto ad altre realtà clinico-universitarie e a suo tempo mi ha convinto a iscrivermi alla facoltà in UniSR. Allora, all’esame in ingresso eravamo in 900 per soli 90 posti: ero convinta di non farcela, e invece eccomi qua.
Studiare qui è stata una bellissima avventura: il rapporto con i professori è stato sempre diretto e con i miei compagni siamo stati esposti sin da subito alla clinica e al laboratorio: abbiamo partecipato a journal club, attività di laboratorio, lavori di gruppo…L’insegnamento è stato sempre molto interattivo.
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Quando ha capito che la ricerca sarebbe diventata parte centrale del suo percorso?
È successo in modo graduale. Verso il quarto anno del corso di laurea ho iniziato a frequentare l’Unità di Ematologia e Trapianto di Midollo Osseo e Oncoematologia, diretta dal Professor Fabio Ciceri, ma poi mi sono progressivamente interessata alle esperienze dei bambini che ricevevano il trapianto o partecipavano ai primi studi di terapia genica.
È stato così che ho iniziato a sentire che volevo specializzarmi in pediatria. Ho infine svolto la mia tesi di laurea nell’Unità di Immunoematologia Pediatrica del San Raffaele, sotto la supervisione della Professoressa Maria Grazia Roncarolo e del Professor Aiuti, per poi proseguire con la specializzazione in Pediatria.
E con la specializzazione è iniziato il suo percorso di ricerca clinica sulla sindrome di Wiskott-Aldrich. Che cosa significa seguire una terapia dalla sua nascita fino all’approvazione?
Era il 2010, quando il Professor Aiuti e la Professoressa Roncarolo mi hanno coinvolto negli studi clinici per testare questa nuova terapia genica per la sindrome di Wiskott-Aldrich, la quale aveva mostrato risultati promettenti nella fase preclinica.
Ancora oggi mi sento una privilegiata: ho potuto seguire sin dal principio la scrittura dei protocolli clinici, l’arruolamento dei primi pazienti e quindi, nel 2019, i primi risultati che davano speranza. Probabilmente nella mia vita personale e professionale non mi ricapiterà più un’esperienza simile.
Ma il vero successo non sono solo i grafici e un nutrito dossier di dati da presentare alle autorità regolatorie. Il vero successo è vedere i piccoli pazienti crescere, poter frequentare la scuola, fare sport, guardare le foto delle loro feste di compleanno con gli amici. Esperienze normali per un/a bambino/a sano/a, ma traguardi molto importanti per chi nasce con una malattia grave come la Wiskott-Aldrich.
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Un percorso di ricerca clinica durato 15 anni: ci sono stati momenti brutti e battute d’arresto?
Più che di momenti brutti, parlerei di momenti difficili. Non sono mancate le sfide legate alle complicanze dovute alla malattia da gestire in alcuni pazienti, ma da ognuna di queste situazioni abbiamo tratto un insegnamento prezioso per migliorare la gestione dei trattamenti.
Forse i momenti più difficili in assoluto sono stati due: uno quando la prima azienda farmaceutica che aveva preso in carico il progetto ha deciso di non investirvi più; l’altro quando una seconda azienda si è tirata indietro pochi giorni prima dell’invio del dossier da presentare alle autorità regolatorie. Questo è stato il momento più doloroso di tutto il percorso: avevamo un trattamento sicuro ed efficace, ma rischiavamo di non poterlo più offrire ai pazienti.
Come siete riusciti ad arrivare all’approvazione?
Per fortuna, Fondazione Telethon ha ripreso in mano il progetto, permettendoci di ricominciare e preparare un nuovo dossier registrativo aggiornato.
Quest’ultimo anno è stato molto intenso: poiché abbiamo fatto richiesta in parallelo sia ad EMA che a FDA, negli ultimi mesi abbiamo ricevuto le visite presso la nostra Unità da parte di ispettori di entrambe le autorità.
È stato un altro momento di prova, ma estremamente formativo, che peraltro ha ribadito quello che sapevo già: la nostra sperimentazione è stata molto rigorosa e questo è stato cruciale per ottenere l’approvazione.
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Perché una terapia così poteva nascere proprio al San Raffaele?
Perché, come spiegavo in apertura, qui ricerca di base, sviluppo preclinico e clinica sono profondamente integrati e possono contare su un insieme di competenze e conoscenze consolidate. Questo dialogo continuo tra laboratorio e realtà clinica è il vero punto di forza del modello San Raffaele.
La sua formazione in UniSR, peraltro, non si è conclusa con la sola specializzazione. Ha addirittura preso un dottorato di ricerca. Perché proseguire su questa strada?
Sentivo che la mia formazione non era completa. Avevo una solida preparazione clinica, ma volevo toccare con mano la ricerca di base, sentivo che era ed è necessario per capire a fondo i problemi della clinica e attivarsi per trovare delle risposte concrete.
Per questo ho anche seguito il percorso di Dottorato in Immunologia e Oncologia di base e applicate, sempre in UniSR. È stata una scelta impegnativa, ma per me necessaria per implementare il mio percorso professionale.
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Guardando indietro al suo percorso in UniSR, qual è secondo lei l’insegnamento più importante che si porta dietro nel suo lavoro attuale?
Puntare sempre in alto. Non guardare dall’alto, ma proprio guardare verso l’alto.
Non arrendersi di fronte alle difficoltà, cercare sempre di uscire dalla propria zona di comfort, sapendo che non sempre ci si riesce, ma che vale la pena provarci.
Questo è del resto lo spirito della visione originaria del San Raffaele: un luogo in cui professionisti/e fanno clinica, formazione e ricerca eccellenti per cambiare la vita delle persone. È un modello che funziona e che continua a dare risultati.
Che cosa direbbe agli/alle studenti/studentesse che vogliono seguire il suo percorso?
Siate resilienti e non spaventatevi davanti alla fatica.
Il percorso è impegnativo, ma quando si arriva in alto, la vista ripaga tutto, un po’ come quando siete lì a scalare una montagna: per un bel pezzo i vostri occhi vedono solo roccia, roccia, roccia, finché arrivate in cima e a quel punto un panorama mozzafiato si spalanca davanti a voi. Questo lungo percorso che ha portato dalla ricerca di base sulla sindrome di Wiskott-Aldrich all’approvazione della terapia genica è stato un po’ così: tanti anni di roccia, roccia, roccia, sfociati in questa visione dall’alto che mostra una nuova possibilità per i/le pazienti e le loro famiglie.
Conclude così la sua testimonianza la Dottoressa Ferrua: la voce di una professionista che crede nel valore della conoscenza che porta all’innovazione, innovating through knowledge, che è l’obiettivo per cui ogni giorno lavoriamo qui in UniSR.