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25 nov, 2025
La prevenzione della violenza di genere non si limita a intervenire sugli episodi: richiede un lavoro profondo e continuo sulle cause culturali come linguaggi, rappresentazioni e immaginari, che hanno contribuito a renderla socialmente tollerata. Come Ateneo impegnato nella ricerca, nell’educazione e nella trasformazione culturale, UniSR rinnova il suo impegno con il nuovo progetto triennale “La violenza di genere: linguaggi e immaginari”, che affronta le radici culturali della violenza attraverso quattro dimensioni: miti e arti visive, linguaggio, etica pubblica e diritti, pregiudizi sociali e loro superamento.
Il progetto, realizzato con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le Pari Opportunità e condotto dalla Facoltà di Filosofia e dai centri di ricerca UniSR GENDER e ICONE, in collaborazione con ILIESI – CNR, CUG UniSR e Zenit Arti Audiovisive di Torino, rappresenta un ulteriore passo concreto nel percorso di UniSR a favore della parità, del rispetto e della prevenzione della violenza di genere.
Le quattro prospettive di lavoro mostrano come la violenza di genere non sia un fatto isolato, ma un sistema di narrazioni, linguaggi e aspettative che attraversano la storia, la cultura e la quotidianità. Per approfondirle, abbiamo raccolto tre contributi originali delle nostre docenti, che offrono uno sguardo complementare su come miti, parole, etica e pregiudizi influiscano sulla nostra capacità – individuale e collettiva – di riconoscere e contrastare la violenza normalizzata.
Sono riflessioni che invitano a interrogare ciò che ereditiamo, le parole che scegliamo e ciò che, come comunità, non possiamo più permetterci di tollerare.
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Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-1625. Roma, Galleria Borghese (dettaglio)
La linea analizza i miti fondativi dell’immaginario occidentale – dal ratto di Europa al ratto di Elena, fino al ratto delle Sabine – che fin dall’antichità presentano episodi di violenza di genere poi riproposti in chiave critica nelle arti visive e performative.
Il progetto propone una lettura critica della tradizione mitografica, per riconoscere gli stereotipi trasmessi nel tempo e superarne gli effetti attraverso pratiche artistiche contemporanee, soprattutto quelle sviluppatesi dagli anni Sessanta nell’ambito dell’emancipazione femminile.
Il ratto di Europa, tra mitologia e arte contemporanea
Il ratto di Europa è uno dei miti greci raffigurati più di frequente nell’arte attraverso i secoli: ne è protagonista Europa, principessa fenicia, che viene rapita e violentata da Zeus, padre degli dei greci. Il mito narra che Zeus, avendola vista in spiaggia a raccogliere fiori insieme alle sue compagne, se ne invaghisce: decide di trasformarsi in un bellissimo toro bianco e si avvicina alla fanciulla che, ammirandone la mansuetudine e non sospettando l’inganno, gli sale sul dorso. Così Zeus la rapisce, cavalcando le onde del Mar Mediterraneo e trasportandola a Cnosso, sull’isola di Creta, dove la fanciulla – vittima della violenza del dio – genera, tre figli, tra i quali Minosse (re di Creta celebre nella mitologia per aver costruito il labirinto che imprigionò il Minotauro). Questo mito rappresenta la migrazione tra Oriente ed Occidente e il nome di Europa, che venne poi dato ai territori occidentali, riflette questo spostamento.
Si riferisce inoltre alla consuetudine del rapimento di fanciulle a scopo di matrimonio forzato, caratteristico dell’antichità ed espressione del patriarcato: tuttavia, nelle raffigurazioni tradizionali della sua iconografia, gli aspetti relativi alla violenza sono in genere tralasciati o minimizzati.
L’installazione contemporanea A Dance with Her Myth (2024) dell’artista libanese Mounira Al Sohl, presentata alla Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, rilegge il mito di Europa in chiave contemporanea e da una prospettiva femminista, rovesciando il rapporto di potere tra Zeus ed Europa per restituire agency a quest’ultima.
È un esempio di come l’arte contemporanea possa consentire un approccio critico agli stereotipi e ai pregiudizi insiti nelle raffigurazioni artistiche tradizionali, consentendoci una decostruzione dei miti fondativi della civiltà greca e di quella romana per svelarne il significato volto a giustificare il patriarcato e la superiorità dell’uomo sulla donna sia nell’ambito familiare sia nell’ambito sociale.
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Installazione contemporanea A Dance with Her Myth (2024) dell’artista libanese Mounira Al Sohl, presentata alla Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia
Questa linea studia il linguaggio d’odio contro le donne, che rafforza e normalizza stereotipi e discriminazioni. Le lingue naturali contengono un vasto repertorio di epiteti denigratori legati alla sessualità femminile o alla non conformità alle norme di genere, spesso usati per ostacolare la presenza delle donne nella sfera pubblica. Una parte della ricerca analizza inoltre le strategie linguistiche che influenzano il riconoscimento della violenza sessuale, contribuendo – per vittime, aggressori, testimoni e istituzioni – a dinamiche di normalizzazione e colpevolizzazione.
Conosciamo i numeri della violenza. In Italia una donna su tre è stata vittima di violenza, fisica o psicologica, da parte di un uomo; ogni tre giorni una donna viene uccisa, nella stragrande maggioranza dei casi da un marito, un partner, un ex partner, un familiare.
Contare e definire violenze e omicidi non sono però operazioni neutre – sono frutto di precise scelte teoriche e politiche. Nei dati forniti dal Ministero dell’Interno, si parla di donne “uccise in ambito familiare o affettivo” e si sceglie di non usare la parola “femminicidio” (termine utilizzato dal 2011 nella Convenzione di Istanbul e dal 2020 dall’Istat) – che si riferisce all’uccisione di una donna a causa del suo genere.
È una scelta insieme teorica e politica se annoverare tra i femminicidi gli omicidi di donne motivati da omofobia, o da razzismo, o quelli legati alla violazione di norme tradizionali, o a pratiche come le mutilazioni genitali femminili; se includere gli omicidi di sex workers, o quelli nell’ambito dello sfruttamento criminale; se qualificare gli omicidi di donne anziane o disabili con l’etichetta di “omicidi di pietà” (un tipo di omicidio di cui sono raramente vittime gli uomini) o di “femminicidi”, dal momento che a essere eliminate sono le donne che non sono in grado, o non sono più in grado, di fornire lavoro di cura.
Violenze e omicidi sono solo la sommità di una piramide fatta di pregiudizi pericolosi e stereotipi tossici, di abusi e oppressione, di disparità di potere ed economiche – che continuano a interessare il nostro paese. Nelle società democratiche contemporanee il patriarcato non si esprime con un sistema di leggi apertamente discriminatorio, ma con strutture sociali che sfruttano e subordinano le donne, e con sistemi di aspettative sessiste sulla loro disponibilità a fornire lavoro di cura, attenzione, ammirazione, amore.
La violenza di genere non è un fatto inevitabile del mondo, ma qualcosa che può e deve essere contrastato – dalle donne e dagli uomini. In primo luogo, con la cultura e l’educazione, non solo alla sessualità, ma all’intimità e più in generale ai rapporti fra generi. Cultura ed educazione rivolte non solo ai giovani, spesso consapevoli della complessità delle identità degli individui, e della varietà delle loro relazioni, ma anche a politica, magistratura, forze dell’ordine, e media – a chi detiene il potere di contare e definire.
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Questa linea indaga come diritti, giustizia e appartenenze culturali influenzino le dinamiche della violenza di genere, analizzando casi di ingiustizia intersezionale – come i matrimoni forzati – e il rapporto tra individui e comunità alla luce dell’ontologia sociale. Allo stesso tempo esplora i pregiudizi che hanno storicamente escluso le donne da scienza, filosofia e arti, mettendo in discussione opposizioni radicate e valorizzando il ruolo delle arti, antiche e contemporanee, come strumenti critici capaci di illuminare vicende attuali e favorire un cambiamento culturale.
La violenza sulle donne non è una questione di donne. È un torto inflitto all’umanità. Riguarda tutte le persone, non solo coloro che la subiscono, ma chiunque, tutti e tutte. Ciò significa almeno due cose. La prima è che le donne subiscono violenza per azioni di un carnefice che ne abusa; la seconda è che le donne subiscono violenza tutte le volte in cui essa viene tollerata. Così stanno le cose: la violenza sulle donne è tollerata, da sempre. Il perpetrarsi della violenza trova spiegazione nell’assenza del coraggio necessario per cambiare le cose, sia negli individui e nelle individue, sia nella società e nelle istituzioni. Dire che siamo tutti e tutte colpevoli non deve essere modo per autoassolverci: deve indurre a riconoscere quanta violenza si cela nei comportamenti, nelle parole, nei pregiudizi, nell’atavica inclinazione a sfavorire le donne, a sottovalutare le loro capacità, i loro diritti, la loro stessa attendibilità come testimoni. Trovare coraggio significa cominciare con il riconoscere l’indifferenza nella quale non di rado troviamo rifugio, e anche con il confessarci disposte e disposti a considerare le donne, consapevolmente o no, quali attrici della violenza che subiscono: si finisce per pensarla così sia per viltà sia per difenderci dal dovere di ammettere che è spesso male ciò che ci circonda, e così illuderci che la società sia più ospitale e più sicura di quanto realmente non sia. Questa assenza di coraggio ci accomuna, donne e uomini, se si tollera la violenza sulle donne e il loro perpetrarsi nel tempo. In questa fuga dalla realtà si nasconde il patriarcato: non regime giuridico, non assetto istituzionale ma mentalità. Quel che occorre – oltre agli sforzi delle persone – è l’impegno della politica e delle istituzioni. È venuto il tempo dell’intolleranza: occorre che la violenza sulle donne diventi intollerabile, sia spinta al di fuori del cerchio della possibilità e persino della pensabilità. Occorre una condanna pubblica della violenza sulle donne che metta fuori campo azioni e parole perché intrinsecamente intollerabili, senza alcuna motivazione che le giustifichi. Occorre reagire contro uno stato delle cose in cui tanta parte della popolazione vive nella paura per il solo fatto di appartenere al genere femminile. Occorre dire di no a uno stato di insicurezza permanente. Occorre un progetto politico concreto, un impegno istituzionale che difenda il diritto ad avere diritti contro ogni forma di discriminazione, e che difenda il futuro di tutti e di tutte, senza eccezioni.
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Tiziano Vecellio, Ratto di Europa, 1560-1562. Boston, Museo Isabella Stewart Gardner
Celebrare il 25 novembre significa allora non solo né principalmente ricordare le vittime, ma impegnarsi attivamente a trasformare ciò che rende possibile la violenza: i racconti e le immagini che la romanticizzano, le parole che la nascondono, le abitudini e i comportamenti che la tollerano.
Significa scegliere ogni giorno di costruire una società in cui la violenza non sia solo punita, ma soprattutto respingibile, visibile, pensata come impossibile. Una società in cui il cambiamento di linguaggi e immaginari diventi parte integrante della lotta per la dignità e la libertà di tutte le donne.
In copertina: Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1621-1622. Roma, Galleria Borghese (dettaglio)
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