19 mar, 2025
La Giornata Mondiale della Felicità, celebrata ogni anno il 20 marzo, è un'occasione globale per riflettere sull'importanza della felicità come diritto fondamentale di ogni individuo. Istituita dalle Nazioni Unite nel 2012, questa giornata ci invita a mettere al centro il benessere e a riconoscere il ruolo cruciale che la felicità gioca nella nostra vita. Qual è il significato della felicità, le sfide che essa comporta e come possiamo coltivarla nella vita quotidiana?
Ne abbiamo parlato in questa doppia intervista con Giuseppe Girgenti, Professore Associato di Storia della filosofia antica UniSR, e Giuseppe Pantaleo, Professore Ordinario di Psicologia Sociale e Direttore dell’UniSR-Social.Lab. Con una prospettiva unica da ciascun campo disciplinare, le loro risposte offrono riflessioni sulla felicità, analizzando il concetto sotto diverse angolazioni: un'opportunità per scoprire come filosofia e psicologia possano intrecciarsi nel perseguimento di un obiettivo tanto universale quanto complesso.
Per definire la felicità dal punto di vista del pensiero antico dobbiamo necessariamente partire dalla varietà della terminologia greca e latina, e dai concetti che i diversi termini esprimono. Io mi concentrerei su tre coppie di termini.
Le scuole dell’età ellenistica, come l’epicureismo e lo stoicismo, si sono concentrate sull’atarassia, ovvero sul modo di raggiungere la tranquillità dell’anima attraverso l’uso dei piaceri in modo controllato e attraverso l’indifferenza rispetto ai dolori. Epitteto, ad esempio, prescriveva “sustine et abstine”, cioè “sopporta il dolore e astieniti dal piacere”. Il concetto di “eudemonismo” come piena realizzazione delle proprie capacità individuali e sociali è stato analizzato invece soprattutto da Aristotele.
Platone, infine, insisteva sul rapporto della felicità con la ricerca del bene, e quindi la declinava nei rapporti di amicizia e di amore. Nel Simposio la via che conduce alla felicità, descritta da Socrate e Diotima, è la scala di Eros con i suoi gradini che portano a una progressiva ascesa al Bello e al Bene. Io ritengo che in tutte queste scuole ci sia un messaggio sempre attuale, e quindi, nelle varie circostanze della vita, sempre applicabile: occorre saper attingere alla saggezza antica nel suo complesso, che, come diceva Giovanni Reale, è un filone d’oro per la terapia dei mali dell’uomo d’oggi.
La filosofia ha un senso solo se contribuisce ad alleviare qualche sofferenza umana e a indirizzare la società verso il bene. Nella costituzione americana è inscritto il diritto di ogni individuo a ricercare la felicità, a cui deve corrispondere il dovere di fare il bene. Oggi la tecnologia e l’intelligenza artificiale rischiano di depotenziare quello che ci è più caro, ovvero l’intelligenza naturale umana, che è l’unica risorsa che abbiamo per evitare la deriva del transumano o del postumano.
Il pensiero antico, ereditato e fatto proprio in gran parte dalla tradizione giudaico-cristiana, costituisce l’ossatura della coscienza dell’Occidente, e quindi il pilastro su cui sostenerci per non diventare ingranaggi di una grande macchina digitale. Per questa ragione ho riproposto gli “esercizi spirituali”, intesi come allenamento filosofico della mente, contro i rischi dell’intelligenza artificiale in vari campi, tra i quali l’educazione e la sanità, per noi che lavoriamo in università e in ospedale, sono sicuramente i più importanti.
Nell'ottobre 1999 lo psicologo sociale statunitense Mihaly Csikszentmihalyi pubblicò nella prestigiosa rivista American Psychologist un articolo scientifico intitolato “Se siamo così ricchi, perché non siamo felici?” (orig. – If we are so rich, why are’t we happy?). La questione non era banale, perché al crescere del benessere materiale nelle società occidentali non si riscontrava un aumento proporzionale di “felicità” e soddisfazione personali. Dovevano dunque essere all’opera altri fattori.
Dal punto di vista della psicologia sociale, anche al giorno d’oggi, non possiamo considerare la felicità in termini assoluti ma sempre in relazione agli altri, cioè alle altre persone e ai gruppi sociali di cui facciamo parte e con cui ci relazioniamo. Fra i tanti, il fenomeno della ‘deprivazione relativa’ gioca un ruolo fondamentale. Tendiamo infatti a confrontarci con chi possiede di più, e questo tipo di confronto sociale sbilanciato (biased) ci può far sentire insoddisfatti anche se in realtà, probabilmente, godiamo di buone condizioni materiali. Inoltre, aspettative di successo sempre crescenti, generate da una molteplicità di spinte e pressioni sociali proprio in direzione del ‘successo’, tendono a spostare i traguardi della soddisfazione personale sempre più in là, rendendo con ciò piuttosto difficile raggiungere la “felicità” secondo quegli specifici canoni.
La cultura e le norme sociali creano e impongono alla coscienza collettiva gli indicatori di una vita “buona”. In società fortemente orientate al materialismo, il successo è spesso misurato in termini di ricchezza e status sociale. La ricerca della felicità si indirizza così verso obiettivi esteriori e misurabili (pensiamo all’infinità di indicatori che, al giorno d’oggi, cercano di misurare le prestazioni personali in ambito lavorativo ma anche relazionale – KPI, H-index, ecc., reti di ‘amici’ sui social media, ecc.).
L’apprendimento, anche nostro malgrado, di questo tipo di valori dominanti da un lato crea e alimenta fuori misura le nostre aspettative individuali, dall’altro ci rende cognitivamente ed emotivamente ciechi ad altre e più stabili fonti di benessere, come coltivare le relazioni interpersonali dedicando loro il giusto tempo, esprimersi in maniera originale e creativa non solo attraverso i linguaggi consueti (per es. in musica, nella danza ecc.), impegnarsi socialmente a favore delle comunità di cui facciamo parte.
Dalla prospettiva della psicologia sociale è importante creare contesti che favoriscano esperienze intrinsecamente gratificanti, di cui possiamo in qualche modo ritenerci la fonte. Se, per esempio,—con Csikszentmihalyi, Wicklund, e altri importanti studiosi del comportamento e della motivazione umana—ci immergiamo completamente in attività che riteniamo adeguatamente sfidanti (cioè né troppo poco, né eccessivamente sfidanti rispetto alle nostre effettive capacità), allora ne ricaveremo un senso di coinvolgimento e di discreta ma stabile e duratura soddisfazione personale, difficilmente rimpiazzabile da ‘simboli di status’ (v. sopra).
Inoltre, nel determinare il senso di benessere complessivo, a livello individuale e collettivo è essenziale creare e alimentare buone relazioni sociali, sempre dedicando loro il giusto tempo, assieme al riconoscimento di valori condivisi—meglio ancora se eterogenei. Non trascurabile, infine, il senso di benessere che deriva dal senso di inclusione e appartenenza sociale (che però mantenga salvo il senso dell’agire e del contributo individuale), come documentato da un recentissimo studio di Versteegen e Adams pubblicato su Group Processes & Intergroup Relations nel marzo del 2025.
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