Il 27 gennaio in gran parte del mondo si celebra la Giornata Internazionale di commemorazione in memoria delle vittime della Shoah, istituita dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel Novembre 2005.
Di seguito il contributo del Professor Abramino (Mino) Chamla, che pone una importante riflessione sul valore della memoria non solo come ricordo, ma come fine da perseguire attraverso azioni e comportamenti, per far sì che “quel che è accaduto non può essere cancellato, ma si può impedire che accada di nuovo”.
Filo spinato attorno al campo di concentramento di Auschwitz. Photo credit: Anna Tamburrino
La memoria, si sa, è in crisi. D’altra parte: c’è qualcosa, di bello e di buono, che non lo sia, in questo momento?
Ma l’approssimarsi del primo Giorno della Memoria da vivere nel tempo dell’epidemia ci impone qualche riflessione in più.
In realtà, la crisi della memoria – fuor di fraintendimenti: la memoria della Shoah che trascina con sé, se non altro come paradigma esemplare, gli altri genocidi e stermini della storia, specie contemporanea – si è manifestata già da molto tempo, diventando a sua volta, e a suo modo, banale e ripetitivo luogo comune.
Banalizzazione, degrado a retorica, monumentalizzazione, ritualizzazione, e molto altro: da quanto tempo questi termini ci sono familiari, finendo quasi coll’assumere il valore di un immediato esorcismo, un puro lip service, per tornare poi comunque, con un certo sollievo, a quella che resta comunque la necessità della memoria?
Memoria: inerte contemplazione del passato o lievito attivo per il futuro?
L’autore di queste righe, parecchi decenni fa, ebbe la ventura di vedere in prima assoluta, al Festival di Venezia, Shoah di Claude Lanzmann, il film di testimonianza universalmente riconosciuto come punto di svolta fondamentale nel plasmare la nostra percezione, storica e memoriale, di quanto accaduto agli Ebrei tra gli anni trenta e la Seconda Guerra Mondiale. Subito ne scrissi come di “passione rivissuta”.
Ma oggi voglio pensare che la mia prospettiva fosse già più vicina a quella dello Yerushalmi di Zakhor (per il popolo ebraico la memoria non è mai inerte contemplazione del passato, ma attivo lievito per rielaborare il presente e preparare il futuro) che non a quella di una contemplazione del male che pretende di ricordare/rivivere/esorcizzare quel male tutto in un solo atto e in una sola esperienza.
Se il “presentismo”, il vivere nella performance immediata e volatile, mediatica e non mediata, senza visioni e prospettive temporali più ampie, è uno dei mali più visibili del nostro tempo – e lo è –, allora già qui troviamo la radice di ogni perplessità su una memoria intesa appunto come ricordare e rivivere per un attimo, per un giorno, per una settimana, finendo inevitabilmente col monumentalizzare il niente.
Ingresso ad Auschwitz durante la fiaccolata della memoria nel 2007. Photo credit: Giorgia Morisi
Il ricordo come mezzo
Quando si istituzionalizzò il Giorno della Memoria, in Italia come altrove, gli scopi dichiarati e sacrosanti erano essenzialmente due: far conoscere e far crescere così la coscienza etico-politica delle persone/cittadini (a partire, beninteso, dai giovani). Ricordare era il mezzo, e non il fine in sé.
Oggi è fin troppo facile constatare come quegli obiettivi siano stati distorti e spesso vanificati dalle dure leggi della realtà. Come si può ricordare quello che non si conosce davvero? Come si può conoscere e, di conseguenza, pensare e elaborare, se troppo spesso si offre la testimonianza individuale come “tutta la storia”, universalizzando in modo sommario e tagliando alla radice proprio la complessità che di quella storia è l’essenza?
E un affollarsi di questioni…
Conoscere, ricordare e pensare
Storia e memoria, prima di tutto, con l’inevitabile prevalere della prima, necessario e indispensabile, al tramonto fisiologico e fatale dell’era del testimone, come la chiamò Annette Wiewiorka. Ma su questo credo avesse già detto la parola definitiva, quando quel tramonto non era neppure alle viste, Saul Friedländer, invocando come unica possibile soluzione una storia integrata, nella quale la memoria, individuale per statuto, si componesse con documenti e fatti più generali nel quadro, complesso ma proprio per questo pensabile e interpretabile, della ricostruzione storica.
Conoscere/ricordare e pensare, al contempo. A partire dall’ebraicità della Shoah, dalla sua specificità, prima di ogni frettolosa e incomprensiva “riduzione all’universale”, a paradigma della condizione umana, modello di tutto e, proprio per questo, ancora una volta, significativo di niente.
Bisogna sempre chiedersi, ancora e ancora: “Perché gli Ebrei?”. E perché con quelle particolari dinamiche… Magari chiedendosi sempre di nuovo se i nazisti e i loro complici non abbiano cercato di annientare, più che l’uomo nell’ebreo, l’ebreo che è in ogni uomo, la diversità assunta coscientemente, ed anche la consapevolezza che la vita umana è sempre cultura che va oltre la natura, idealità che trascende il reale, molteplicità di prospettive che disdegna ogni reductio ad unum – tutte cose che, tra l’altro, un Emmanuel Lévinas aveva già intuito e detto nelle sue Riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, del 1934.
Il Muro Occidentale (noto come "Muro del Pianto") del Tempio di Gerusalemme. Photo credit: Eufemia Serena Putortì
Educare alla complessità
Ancora: rivitalizzare la testimonianza anche e soprattutto quando rischia di non essere più data e ripetuta dal vivo, tornare al testimone alla fine dell’era del testimone, ma, come già si è accennato, non caricando più quelle testimonianze di significati olistici, quasi che fossero e dovessero rappresentare, ogni volta, la Shoah nella sua totalità ed essenza; esperienze uniche, invece, che hanno dato e devono dare per sempre ulteriore complessità e profondità al nostro sguardo e alla nostra coscienza dell’Evento.
Solo a queste condizioni, forse, potremo continuare a far vivere una buona memoria, capace di passare indenne attraverso celebrazioni rituali forse inevitabili, persino in società future migliori di questa nostra, a tratti orribile nel suo essere, fino in fondo, società della comunicazione e dello spettacolo, come nemmeno un Guy Debord sarebbe riuscito a immaginare.
È un vasto programma, certo, quello che indichiamo. Ma possono far altro, gli uomini di buona volontà, specie quando educare alla complessità, in ogni ambito, e sullo sfondo delle crisi epocali che attraversiamo, si rivela, letteralmente, l’unica vera strategia di sopravvivenza che abbiamo?
Vista del campo di concentramento di Auschwitz. Photo credit: Anna Tamburrino