Nel mondo dell’utile e della prestazione ossessiva 24/7 in cui viviamo, celebrare la Giornata mondiale della poesia può sembrare un simpatico e balzano controsenso. A cosa servono, in fondo, i poeti oggi?
L’etimologia
Il secondo significato del dizionario, quello estensivo, descrive un “poeta” come «una persona dotata di un grado notevole di immaginazione o di sentimento, polemicamente traducibile, nel linguaggio popolare, in un eccesso di fantasia e in incapacità nelle attività pratiche» [1].
Eppure la parola “poesia” deriva dal verbo greco poieîn, che nel suo significato più comune significa “fare” nel senso di “produrre” e “creare”. Ma chi crea?
Non certo il poeta, ma il dio, la musa, la natura stessa, che usano poeti e poetesse come strumenti, come autentici sciamani della parola.
La funzione della parola poetica
In tutte le culture umane ci fu un tempo in cui la parola fu cosa fra le cose, perché la funzione del linguaggio non era descrivere il mondo, ma farlo sentire nella sua intima essenza.
La parola del poeta, per gli Antichi, era una parola efficace e il poeta era chiamato “maestro di verità” [2]. Pronunciata dal centro fisico ed immaginario della comunità, la parola non cercava l’accordo e il consenso degli uditori. Dispiegandosi con l’enigmatica maestà di un oracolo, la parola poetica non era manifestazione della volontà di un soggetto, ma possedeva, con il suo dire, tutto il potere del mondo.
Questo potere fu poi spiegato con il fascino della musica, con la forza sinuosa del ritmo, con la dolce violenza delle immagini che seducono l’anima [3]. Ma questa è già retorica, che celebra la parola come “potente signora” [4], ossia come strumento di una tecnica.
Statua in marmo di Calliope, musa della poesia, scolpita da Fernando Pelliccia e situata nel Jardin du Luxembourg (Parigi)
La poesia come arte, ma non solo
È questa l’epoca in cui, in Occidente, nasce la poesia come “arte”, come luogo del “fare” umano, come accadimento in cui la voce e la scrittura del poeta sono creduti, pur sempre, le forme di un agire [5]. Si tratta, allora, della più debole e illusoria delle forme del fare, che pretende di agire sul mondo delle cose combinandone i fantasmi, ossia il quasi nulla delle parole, per l’effimera durata d’un verso.
Così, con il passare del tempo, i poeti e le poetesse diventeranno quei lunatici, inutili e stravaganti visionari, ai margini della vita, a cui allude la seconda definizione del nostro dizionario.
Tuttavia, se nella storia delle culture umane ha continuato ad esserci poesia, ciò è avvenuto perché, al di là della cornice delle epoche e delle latitudini, essa ha potuto essere anche altro. C’è poesia, infatti, là dove la parola si rammenta della sua origine, ossia di essere cosa fra le cose.
Il mestiere del poeta
In Avvento, Nanni Cagnone, uno dei maggiori poeti italiani viventi, ci regala una breve riflessione sul “mestiere” del poeta.
Essere poeta è coltivare l’estrema recettività dell’attenzione. Infatti, il poeta non vuole capire, come il filosofo o lo scienziato, né ottenere, come l’uomo comune, ma sentire. Sentire non vuol dire essere sentimentali, ma fare esperienza.
«La poesia», scrive Cagnone, «pone la sua pretesa nel punto più acuto della relazione con l’oggetto» [6]. Oggi, innanzi alla violenza frenetica del mondo tecnologicamente e produttivamente inteso come una macchina, che tratta ogni essere come qualcosa di disponibile, manipolabile e riproducibile all’istante, il lavoro dei poeti e delle poetesse, ora come allora, ci insegna la pratica dell’attenzione e la cura dell’esperienza.
La poesia, in un mondo che si consuma dietro miriadi di aspettative, esorta ad attendere.
Il ruolo della poesia nel mondo contemporaneo
Tutta la poesia del mondo, che solo in parte si riconosce in ciò che chiamiamo letteralmente o anche traslatamente “poesia”, ci suggerisce che non dobbiamo fare nulla, ma solo restare pazienti, in stato d’attenzione. Per questo è così difficile riconoscere il ruolo della poesia nell’epoca impaziente della mobilitazione totale e del delirio del fare.
La poesia, che pure ha il “fare” nel nome, è, invece, la pura inoperosità, la più audace negazione di ogni fare umano e, insieme, l’esercizio di un “fare” più elevato e anzi sommo, quello che agisce sul nostro stesso agire per sospenderlo e per metterlo infine a tacere, lasciando accadere, al culmine meridiano dell’attenzione, l’esperienza dello splendore del mondo.
Allora, come bisbigliava, dal cantuccio della sua mite follia, Alda Merini, «i poeti, nel loro silenzio/ fanno ben più rumore/ di una dorata cupola di stelle» [7].
References
[1] Definizione tratta da Oxford Languages.
[2] M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica (1967), tr. it. Laterza, Roma-Bari 1983.
[3] F. Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero Grecità e Pessimismo (1872), tr. it., Adelphi, Milano 1973.
[4] Gorgia di Leontini (485-375 ca. a. C.), Encomio di Elena e altri frammenti, in Sofisti: Protagora, Gorgia, Dissoì Lògoi. Una reinterpretazione dei testi, Zanichelli, Bologna 1995.
[5] V. Di Benedetto, Euripide: teatro e società, Einaudi, Torino 1971; R. Pfeiffer, History of Classical Scholarship from the Beginnings to the End of the Hellenistic Age, Clarendon Press, Oxford 1968.
[6] N. Cagnone, Avvento, Palomar, Bari 1995.
[7] A. Merini, I poeti lavorano di notte, Franco Puzzo Editore, Trieste 2009.