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Armine e la bellezza non convenzionale

Cultura e società

30 ott, 2020

Armine Harutyunyan, 23 anni, modella, di nazionalità armena. È uno dei nomi più cliccati del web, diventata celebre per essere stata scelta come volto della maison Gucci. I tratti particolari del suo volto, insoliti, differenti dai “canoni di bellezza” occidentali l’hanno resa bersaglio di hate speech, aspre critiche, commenti offensivi.

 

I canoni estetici nel mondo della moda

Una modella o un modello sono molto più di un manichino su cui appendere degli abiti e da addobbare con degli accessori ricercati.

Da tempo il mondo della moda, o almeno la parte più intelligente e consapevole di quel mondo, ha capito che i modelli sono degli interpreti.

Essi portano in sfilate, video e servizi fotografici, l’immagine di uno stile di vita, di un modo di essere che valorizza gli abiti come narrazione, che suggerisce agli spettatori avventure, storie ed esperienze.

La vicenda della “bellezza non convenzionale” di Armine Harutyunyan può certo invitare a riflettere sull’omologazione dei canoni estetici della contemporanea società dello spettacolo che, come si suol dire, “dà al pubblico ciò che il pubblico vuole”.

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Ma questa frase, com’è noto, descrive solo il risultato dei persuasori occulti, gli effetti dell’abitudine del desiderio, indotta dalla stessa ripetitività spettacolare dell’offerta del mercato.

Se si mostrano sempre modelle bionde, alte e con gli occhi azzurri, poi rimaniamo disorientati se si presenta una ragazza, come Armine, che nel viso ricorda i perturbanti ritratti egizi del Fayyum, di età ellenistica e romana, con le folte sopracciglia che sottolineano la profondità enigmatica degli occhi bruni, il fascino del mistero che ci restituisce uno sguardo che sembra sopraggiungere dalla notte dei secoli.

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A sinistra, la modella Armine Harutyunyan. A destra, Ritratto del Fayyum, I a.C. - III d.C. (foto Archivio Fotografico Museo Archeologico Nazionale di Firenze).

 

Qual è il compito della bellezza?

Rassicurare o inquietare, confermare i nostri comuni pregiudizi, oppure sorprenderci, scuoterci e farci sperimentare la vertiginosa singolarità di ciò che mette in discussione e fa dimenticare ogni preconcetto.

In fondo, credere che la bellezza sia qualcosa di universale, una forma valida in assoluto e sempre uguale a se stessa, significa prima o poi scoprire dietro il paravento del bello l’uniformità dello stereotipo, la ripetitività della serie, la continuità rassicurante di ciò che è scontato e banale.

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Sandro Botticelli, Nascita di Venere (particolare), vers 1483-1485 © Galleria Degli Uffizi, Firenze

 

C’è, invece, nella bellezza autentica la forza dell’unicità irripetibile, che irrompe nelle nostre esistenze, ci turba e ci provoca. È un’antica fallacia quella che identifica la bellezza con una forma di perfezione.

Nel romanzo Antichi maestri dello scrittore austriaco Thomas Bernhard si racconta la storia di un vecchio signore che, ogni due giorni, va a sedersi su una panca della Pinacoteca di Vienna fissando, per lunghe ore, un quadro del Tintoretto.

Ma egli non è lì per ammirarlo, almeno nel senso consueto del termine, bensì per cercarne i difetti, quelle piccole e grandi imprecisioni che si nascondono in ogni capolavoro. Perché, nota Bernhard, «il tutto e il perfetto non li sopportiamo».

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Claude Monet, Nymphéas, vers 1916-1919 © Musée Marmottan Monet, Paris

Ciò che rende un'opera d'arte un capolavoro è proprio la sua capacità di custodire il difetto e di farlo emergere, poco a poco, rappresentando quel lieve scarto d'imperfezione che solleva, sublime, il grigio manto d'ordine steso sopra il disordine multicolore del mondo.

Per questo nessuno chiede alle mani degli angeli di Botticelli di essere anatomicamente perfette, né alle ninfee di Monet di disporsi diversamente sul verde cangiante dello stagno.

Per questo la vicenda di Armine ci insegna che la bellezza non è un’idea celeste, né tantomeno uno stereotipo commerciale, ma la forma dell’esperienza più intensa che può accadere nell’immanenza di una vita.

Scritto da

Andrea Tagliapietra
Andrea Tagliapietra

Filosofo e scrittore, è ordinario di storia della filosofia UniSR dove dirige ICONE, il Centro Europeo di Ricerca di Storia e Teoria dell’Immagine. Ha la passione per le chitarre rare, che colleziona e suona, come può e appena può. È autore di più di una ventina di libri, su temi come la sincerità, la bugia, il pudore, la fine, il dono, il ridere, il dolore, l’esperienza, i cartoni animati. Nel 2004 ha vinto il Premio Viareggio per la Saggistica. È convinto che la filosofia sia la paziente messa in discussione dell’ovvio, ossia di quello che fino a quel momento tutti davano per scontato nei campi del sapere come nella vita di tutti i giorni.

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