Negli ultimi mesi, numerosi sono stati i casi di cronaca che hanno riportato manifestazioni di dissenso culminate in episodi violenti e distruttivi, quando non veri e propri atti di vandalismo.
Dalle proteste contro il secondo lockdown in Italia [1, 2, 3] alle reazioni post-elettorali statunitensi, non è raro che la disapprovazione assuma un volto minaccioso e aggressivo.
Quali motivazioni spingono a tale rabbia cieca e incontrollata? Come e dove intervenire, a livello personale e sociale, per affrontare il problema?
Abbiamo indagato il fenomeno da un punto di vista psichiatrico e filosofico, pubblicando due news sul blog UniScienza&Ricerca per dare ampio spazio alle riflessioni dei docenti e dei ricercatori dell’Università Vita-Salute San Raffaele.
In questo primo episodio, che esplora la prospettiva psichiatrica, rispondono per noi il Dott. Guido Travaini, Ricercatore e Docente di Medicina Legale e Criminologia UniSR, Coordinatore Area Criminologia – Master II livello in Psicopatologia Forense e Criminologia Clinica, e la Prof.ssa Cristina Colombo, ordinario di Psichiatria UniSR e Direttrice della Scuola di specializzazione in Psichiatria e del Master in Psicopatologia forense e Criminologia Clinica, nonché primario dell’Unità Disturbi dell’Umore dell’IRCCS Ospedale San Raffaele.
L’esempio del lockdown e la differenza tra la prima e la seconda ondata
Moti di insofferenza e ribellione si sono verificati in occasione del rinnovarsi del lockdown nello scorso autunno [1, 2, 3]; crediamo sia necessario fare una distinzione tra quel che è accaduto nel mese di marzo e ciò che stiamo vivendo oggi.
Nella scorsa primavera il concetto di emergenza – intesa come circostanza improvvisa e poco prevedibile – era perfettamente adeguato. Abbiamo vissuto una paura diffusa che ha facilitato il seguire in maniera rigorosa le indicazioni del governo, magari nella speranza di veder “risolto” un qualcosa che stava modificando significativamente la vita di ognuno.
Recentemente un grande psichiatra quale Eugenio Borgna fa riferimento ad uno shock emotivo collettivo che ci ha aiutati a superare la prima ondata, una sorta di paura diffusa che ha avuto un effetto “anestetizzante” anche su una possibile reattività anche violenta.
Avevamo a che fare con un nemico sconosciuto ma presente ovunque con effetti paralizzanti.
Oggi la situazione è certamente cambiata: sono disponibili più informazioni scientifiche ma al tempo stesso si hanno meno certezze sul come e sul quando tutto possa tornare come prima. E questo genera ansia e la nostra capacità di resilienza è così messa ulteriormente a dura prova.
Gli aspetti maggiormente stressanti possono così essere riassunti:
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la lunghezza dell’emergenza e il senso di impotenza che deriva da una facilità di contagio che non esclude nessuna categoria di persone;
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il susseguirsi di norme talvolta di non facile comprensione che hanno quale denominatore comune il limitare la nostra libertà individuale;
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l’informazione non tranquillizzante ma semmai volta a enfatizzare le differenti posizioni degli esperti;
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le reali difficoltà economiche che vanno a toccare un numero elevatissimo di persone.
Tutti noi possiamo riconoscerci in tali fonti di disagio. Ognuno, poi, troverà un aspetto, più fastidioso o preoccupante di un altro, per personalità e condizioni famigliari e di vita. In un contesto così complesso, devono essere letti gli eventi e le proteste che hanno caratterizzato non solo l’Italia ma quasi tutti i paesi europei e occidentali.
La necessità di trovare un “nemico” comune
Più in generale, al di là dell’esempio del lockdown, occorre fare una distinzione tra le molte manifestazioni in cui le persone, in modo corretto e conforme alle leggi, hanno manifestano la propria contrarietà o i propri dubbi rispetto a provvedimenti e norme, da altre in cui, l’aspetto della violenza e della voglia di distruzione, è divenuta prevalente rispetto alla ragione della protesta stessa.
In alcune situazioni siamo stati testimoni della presenza nelle piazze di soggetti con provenienze sociali, ideologiche lontane tra loro che si sono ritrovati nel progetto comune di distruggere, danneggiare e combattere con le forze di Polizia.
In situazioni di maggiore complessità sociale vi è una sorta di necessità di creare un “nemico” comune su cui riversare rabbia e frustrazione: la protesta sociale diventa così una sorta di contenitore di frustrazioni, con origini magari diverse, ma che diventano comuni nel momento in cui viene identificato il capro espiatorio che deve essere attaccato e distrutto.
Da un punto di vista criminologico è importante cercare di comprenderne le ragioni e le dinamiche sottostanti.
La violenza delle manifestazioni di gruppo
Trattandosi di manifestazioni di gruppo può verificarsi una sorta di deindividualizzazione, un grande anonimato in cui le persone, magari solo per poco, abbandonano le loro credenze normative personali e si adeguano in modo passivo alle azioni del gruppo, che diventa così una specie di soggetto autonomo e deresponsabilizzante.
Tutto questo è ben evidenziato in molti studi sulla psicologia delle masse in cui si evidenzia come i singoli individui agiscono in modo simile senza avere significativi rapporti tra loro [4]. Come non ricordare l’assalto al forno delle grucce di manzoniana memoria!
La folla diventa una sorta di gregge nel quale idee, emozioni, credenze contagiano rapidamente chi ne è parte. La componente emotiva di appartenenza al gruppo diventa preponderante e induce a seguire le condotte del gruppo anche se queste possono essere molto lontane dall’agire abituale del singolo.
Sovente quando si commettono azioni violenti in gruppo, operano anche delle tecniche di neutralizzazione che altro non sono che modalità giustificative.
Molti dichiarano di viversi come trascinati dagli eventi con una limitata capacità di scelta, altri giustificano la propria violenza per gli alti ideali che sottostanno al proprio agire. Quest’ultimo aspetto può essere presente quando i valori alla base della protesta possono essere di grande importanza quanto la libertà di muoversi, di lavorare etc.
In sintesi il gruppo può diventare un formidabile attivatore di sentimenti positivi ma anche negativi e prodromico di comportamenti anche estremamente violenti. Non bisogna mai dimenticare che un gruppo è una entità diversa dalla mera somma delle entità individuali che lo compongono.
Affrontare il problema: un contributo dal mondo universitario
Crediamo sia importante imparare a gestire sempre meglio, in termini organizzativi, gestionali e di comunicazione, queste possibili emergenze. Consapevoli che è cosa affatto facile, devono, infatti, operare in maniera simultanea competenze e saperi differenti tra loro.
Un contributo può arrivare anche dal mondo universitario che – da attento osservatore della realtà – può attivare momenti formativi o di mera riflessione sul tema della gestione delle emergenze prolungate.
È ciò che abbiamo in animo con il prossimo corso di formazione già approvato dalla nostra Facoltà, dal titolo "Gestione di emergenze sanitarie o non convenzionali" il cui obiettivo è di fornire ai partecipanti (operatori sanitari, responsabili della sicurezza e della comunicazione di aziende pubbliche e private) nozioni teoriche, operative ed esperienziali nonché le good practices applicabili in caso di una gestione sanitaria o non convenzionale, magari di lungo periodo.
L’approccio è necessariamente multidisciplinare, e vedrà coinvolti docenti di UniSR che hanno vissuto e ancora vivono in maniera diretta la pandemia, così come esperti informatici, giornalisti, operatori di polizia che racconteranno la propria esperienza.
References
[1] https://napoli.repubblica.it/cronaca/2020/10/23/news/napoli_protesta_coprifuoco-271649931/
[2] https://www.ansa.it/lazio/notizie/2020/10/31/mascherine-tricolori-contro-lockdown-tafferugli-a-roma_ac2dca20-e57f-4ef6-8ef1-e06068fe2c92.html
[3] https://www.milanotoday.it/attualita/coronavirus/manifestazione-proteste-31-ottobre-2020.html
[4] U. Galimberti, Dizionario di psicologia, UTET:Torino, 1992.