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La lingua madre, una ricchezza culturale e cognitiva

Curiosiscienza

La lingua madre, una ricchezza culturale e cognitiva

7 apr, 2021

Il nostro pianeta è popolato da quasi 8 miliardi di persone, con un’attuale crescita media della popolazione stimata a 81 milioni di individui l’anno [1]. Ciascun individuo è esposto alla nascita a una o più delle circa 7140 lingue viventi conosciute [2]. Si tratta di un numero in costante fluttuazione, non solo perché la nostra conoscenza di queste lingue cambia attraverso il tempo, ma perché le lingue stesse si trasformano, cadono in disuso, o si estinguono a causa di pressioni sociali, politiche ed economiche.

Della Lingua Madre esiste anche una Giornata Internazionale (ricordata il 21 Febbraio), istituita nel 1999 dall’Unesco a difesa della diversità linguistica e del plurilinguismo. Infatti, a dispetto di un progressivo aumento della popolazione globale, la diversità linguistica sembra essere oggi in costante declino.

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Basti pensare che mentre lingue come il Cinese Mandarino e l’Inglese sono attualmente parlate, rispettivamente, da 921 e 978 milioni di persone (considerando, per l’Inglese, anche i parlanti non-nativi), circa il 40% delle lingue viventi è minacciato di estinzione, spesso con meno di 1.000 parlanti rimanenti [2]. Il progressivo recedere della diversità linguistica è stato paragonato in modo non banale al progressivo recedere della biodiversità sul nostro pianeta [3]. In entrambi i casi, convincenti ragioni scientifiche, etiche e culturali sono state addotte a tutela della ricchezza e della molteplicità dell’esistente.

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C’è senz’altro una convenienza nell’adottare, da parte di individui o comunità linguistiche, codici globalizzati che consentano di accedere ad un più vasto ventaglio di opportunità sociali, politiche, educative o lavorative. Ma questo non significa necessariamente abbandonare la propria lingua madre ed il patrimonio culturale ed identitario che essa rappresenta.

Considerazioni simili valgono a maggior ragione se si considera che la maggioranza delle lingue viventi non sono codificate in forma scritta [3]: in questi casi, l’estinzione linguistica equivale ad una recisione netta di una comunità linguistica con il proprio passato. Il bilinguismo o plurilinguismo rappresentano, da questo punto di vista, una soluzione che consente di mantenere e continuare a trasmettere, da parte di una comunità di riferimento, la propria lingua nativa, e al contempo accedere ai molteplici vantaggi garantiti dall’uso di una lingua globale e dall’esperienza bilingue.

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Come si definisce una “lingua madre”?

Come accade spesso con molte delle espressioni che utilizziamo con più naturalezza, anche “lingua madre” è un’espressione piuttosto scivolosa, che è stata interpretata in modi anche piuttosto diversi. Di norma per lingua madre o lingua nativa si intende la lingua a cui un individuo è esposto alla nascita o entro un periodo critico [4].

Spesso si usano in modo intercambiabile etichette come “prima lingua”, in contrapposizione a lingue apprese più tardi, per esempio in età scolare. In alcuni casi, per esempio quello di individui bilingui appartenenti a minoranze etniche, le espressioni lingua madre o lingua nativa possono riferirsi alla lingua del proprio gruppo etnico anziché alla prima lingua acquisita in età infantile. Fenomeni di auto-identificazione possono essere mediati anche da aspetti culturali ed emotivi [5], che portano un parlante bilingue o plurilingue a considerare la propria lingua madre come quella delle radici o degli affetti, a prescindere dal fatto che possa essere stata appresa più tardi di altre.

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A che età i bambini iniziano a comprendere la lingua che i loro genitori parlano?

La capacità di percepire e discriminare stimoli linguistici inizia molto presto, addirittura nel ventre materno. Conversazioni a intensità normale sono udibili nell’ambiente intrauterino, e il feto mostra già una certa sensibilità nei confronti di alcune caratteristiche delle lingue naturali come il ritmo e la melodia. A pochi giorni dalla nascita, il neonato è in grado di discriminare tra la voce materna e un’altra voce femminile, così come tra la lingua a cui è stato esposto durante il periodo prenatale e una lingua diversa.

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Un aspetto affascinante e tuttora misterioso della comprensione del linguaggio parlato è la nostra capacità di estrarre informazione linguistica da un flusso sonoro continuo. Si tratta di una capacità stupefacente se si pensa che entro l’anno di vita il bambino è già in grado di segmentare il flusso del parlato in unità discrete (suoni, sillabe, parole etc.), e di associare la forma di parole frequenti a referenti nel mondo esterno, tipicamente persone e oggetti familiari. Dai 18 mesi si assiste ad un notevole ampliamento del vocabolario e allo sviluppo della competenza sintattica [7], prima in forma telegrafica, poi, dai 24 mesi in avanti, in forma meno rudimentale.

Dal punto di vista articolatorio, dopo i 24 mesi matura anche la capacità di pronunciare suoni consonantici considerati più ostici, anche se possono volerci anni per padroneggiare l’inventario completo dei suoni di una lingua. Lo stesso dicasi per alcune strutture frasali, che sono completamente padroneggiate solo in età adulta. L’acquisizione del linguaggio è in effetti un processo graduale, che mostra, nel quadro di traiettorie di sviluppo sostanzialmente comparabili, una non trascurabile variabilità individuale.

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Cosa accade quando abbiamo più di una lingua madre?

Continuano a persistere, anche se in forma sempre più debole, alcuni falsi miti sul bilinguismo, specialmente per quanto concerne l’età evolutiva. Soprattutto intorno alla metà del secolo scorso, una nozione circolante [8] era quella secondo cui il bilinguismo/plurilinguismo nativo o simultaneo, vale a dire l’esposizione a più di una lingua alla nascita, avrebbe ritardato l’acquisizione del linguaggio in età infantile. Questo è notoriamente falso, come dimostrato dal fatto che i bambini bilingui con disturbi specifici dell’apprendimento non sono proporzionalmente più numerosi dei bambini monolingui affetti dagli stessi disturbi [8].

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Detto ciò, è utile tenere presente che il profilo linguistico e cognitivo dei bambini bilingui, dovendo essi gestire più di una lingua, può presentare differenze fisiologiche rispetto a quello dei bambini che invece crescono con una lingua sola. Un altro falso mito è che l’alternanza linguistica in bambini bilingui a livello di frase o di discorso sia un sintomo di confusione linguistica. Si tratta invece di uno schema di comportamento tipico del bilingue, a prescindere dall’età e dal livello di padronanza delle lingue conosciute, che mostra un alto grado di regolarità e offre spunti di grande interesse sulla capacità di controllo linguistico in funzione di fattori come il contesto comunicativo.

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Da un punto di vista cognitivo, qual è l’importanza delle lingue? Quali sono i vantaggi di chi parla più di una lingua?

I vantaggi educativi, relazionali e lavorativi di chi parla più lingue sono auto-evidenti. Ma un buon numero di studi ha mostrato che esistono anche vantaggi squisitamente cognitivi associati all’apprendimento e all’utilizzo di più lingue. L’idea di fondo è che gestire più lingue rappresenterebbe una sorta di ginnastica mentale a cui non sarebbe esposto chi utilizza una lingua sola. È stato dimostrato che le lingue che un soggetto conosce non sono segregate in compartimenti stagni, ma interagiscono e competono tra loro per essere usate. Ciò significa che per selezionare e utilizzare una lingua specifica a scopo comunicativo, oppure per passare da una lingua all’altra in determinati contesti comunicativi, il bilingue/plurilingue deve costantemente monitorare le alternative linguistiche a disposizione ed inibire la lingua o le lingue che non intende utilizzare.

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Questa forma di controllo linguistico ha delle conseguenze cerebrali e impatta su funzioni cognitive che eccedono il linguaggio, come per esempio le funzioni esecutive. A onor del vero, un vantaggio cognitivo legato all’esperienza bilingue non è stato riscontrato in tutte le fasce di età, ma più spesso in bambini e soggetti anziani. Nei giovani adulti non pare esserci grande differenza tra le prestazioni cognitive di bilingui e monolingui. Una interpretazione possibile è che i giovani adulti, tipicamente studenti universitari, a differenza di altre fasce d’età, abbiano accumulato o stiano sperimentando al momento del test una gamma di esperienze cognitivamente stimolanti che elidono il vantaggio rappresentato dal bilinguismo.  

 

References

  1. United States Census Bureau. 2020. U.S. and World Population Clock. Online version: https://www.census.gov/popclock/
  2. Eberhard, D.M., Simons G.F., and Fennig C.D. (Eds.). 2021. Ethnologue: Languages of the World.Twenty-fourth edition. Dallas, Texas: SIL International. Online version: http://www.ethnologue.com.
  3. Anderson, S. R., & Anderson, S. 2012. Languages: A very short introduction(Vol. 320). Oxford University Press.
  4. Davies, A. 1991. The native speaker in applied linguistics. Edinburgh University Press.
  5. Berruto, G. 2004. Prima lezione di sociolinguistica. Laterza.
  6. Lecanuet, J. P., & Granier-Deferre, C. (1993). Speech stimuli in the fetal environment. In Developmental neurocognition: Speech and face processing in the first year of life(pp. 237-248). Springer, Dordrecht.
  7. Clark, E. V. (2009). First language acquisition. Cambridge University Press.
  8. Grosjean, F. (2010). Bilingual: Life and reality. Harvard university press.

Scritto da

Nicola Del Maschio
Nicola Del Maschio

Nicola Del Maschio è ricercatore in Linguistica Generale presso la Facoltà di Psicologia dell'Università Vita-Salute San Raffaele. Si occupa prevalentemente di basi cerebrali del linguaggio e del bilinguismo. Ama l’arte, il design, e la musica, che ascolta senza fare nient’altro. Nel tempo libero gioca a golf e si fa portare a spasso da Ercole, un Jack Russell che si crede un Alano.

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