Nel cuore della Roma occupata, sull'isola Tiberina, si consumò una delle storie più straordinarie di resistenza e umanità durante la Seconda guerra mondiale. Il "morbo di K", una malattia fittizia, fu ideata dai medici dell’Ospedale Fatebenefratelli per proteggere ebrei e altri perseguitati dai rastrellamenti e dalle deportazioni.
Con il pretesto di un’epidemia pericolosamente contagiosa, si riuscì a ingannare i nazisti, salvando così decine di vite. In occasione della Giornata della Memoria, questa intervista ci conduce alla scoperta di un’epidemia "immaginaria" che continua a ispirare riflessioni sul ruolo della medicina e della solidarietà in tempi di crisi. Ne abbiamo parlato con il Prof. Andrea Grignolio, docente di Storia della Medicina UniSR.
Il morbo di K
Il morbo di K è l’epidemia più "bella" della storia della medicina: è un’invenzione, un inganno, avvenuto sull’isola Tiberina, durante l’occupazione nazista, grazie alla quale si è riusciti a salvare la vita delle persone “affette” da questa “malattia molto contagiosa”.
Dai riscontri storici che abbiamo, il morbo di K era caratterizzato da crampi, convulsioni, e infine da asfissia, un profilo sintomatologico molto simile a quello della tubercolosi. Un aspetto centrale relativo a questo morbo è che allora era sconosciuto quale fosse l’agente infettivo responsabile, come peraltro accadeva per alcune altre malattie infettive in quello stesso periodo storico. Allo stesso tempo, era presentato come una malattia altamente contagiosa e letale, per cui i malati vivevano in uno strettissimo isolamento, aspetto che è sempre stato associato ad un alto indice di virulenza.
Un aspetto storicamente interessante è che il luogo di innesco del morbo di K sia stato l’isola Tiberina che, dal III secolo a.C., era luogo di cura dedicato ad Esculapio, la divinità greca della medicina. Ne è prova che, ancora oggi, se ci si reca sull’isola Tiberina si può trovare il caduceo, famoso bastone di Esculapio, con il serpente attorcigliato, scolpito nel marmo. L’ospedale oggi è il noto Fatebenefratelli di Roma.
L'"inventore" del Morbo di K
La figura centrale è Giovanni Borromeo, internista ed esperto di malattie infettive, una figura importante che aveva espresso un certo rifiuto del fascismo. Per questo motivo era stato chiamato dal Priore dell'Ordine Ospedaliero San Giovanni Calibita che gestiva il Fatebenefratelli, il polacco Fra Maurizio Bialek, una sorta di giurisdizione protetta dal Vaticano, che gli garantiva un certo margine di libertà.
Fu lui ad inventare questo morbo, direi, per due motivi: da un lato opponeva una significativa, benché non eccessivamente manifesta, resistenza contro il fascismo e i suoi abusi; dall’altro era stato allievo del fisiopatologo Marco Almagià, di religione ebraica, il che probabilmente lo rendeva più sensibile alle violenze e discriminazioni antisemite.
Riguardo l'origine del nome vi sono due versioni, una più piana ed evidente e una più indiretta, che tuttavia non si escludono.
La prima è che K verrebbe dal bacillo di Koch responsabile della tubercolosi (TBC), chiamata anche tisi, una malattia che colpiva i polmoni e molto diffusa al tempo. In Italia, tra l’altro, le conoscenze e i tentativi di cura della TBC erano piuttosto avanzate. Ricordiamo, ad esempio, Edoardo Maragliano, il primo a proporre una sieroterapia fondata sull’immunità passiva, o anche Carlo Forlanini, che propose una terapia chirurgica inventando lo pneumotorace per favorire la cicatrizzazione dei tessuti polmonari affetti da tubercolosi. Quest’ultima era nota, diffusa, pericolosa ed infettiva e oltretutto aveva i sintomi simili a quelli inventati per la malattia misteriosa dell’isola Tiberina, perciò si decise per morbo K, per assimilazione con il nome dello scopritore, e del bacillo responsabile, della tubercolosi.
Una seconda versione opera per assonanza con il terrore dell’epoca, ovvero alle due figure responsabili delle violenze ed eccidi nazisti che allora gravavano sulla Penisola. K potrebbe infatti essere associato al nome dell’autorità nazista che controllava Roma, ovvero l’ufficiale delle SS Kappler, che venti giorni prima del rastrellamento aveva con l’inganno confiscato l’oro alla comunità ebraica romana e che fu poi responsabile esecutore dell’eccidio delle fosse ardeatine, ma anche al nome del generale Kesselring, comandante in capo delle forze tedesche in Italia. Secondo questa versione, nacquero in quei tragici giorni i “pazienti Kesselring" per indicare i pazienti in fuga dai tedeschi. Non è noto se nella beffa architettata da Borromeo il nome scelto per il morbo che avrebbe potuto appestare i nazisti del rastrellamento del ghetto di Roma vi fosse anche un ironico riferimento ai due alti militari tedeschi, certo è che il “morbo di K” aveva il vantaggio di essere ben comprensibile alle orecchie delle SS.
Indipendentemente dall’origine del nome, come riportato da Adriano Ossicini, un attivista antifascista e giovane medico alle dipendenze di Borromeo, il morbo di K sulle cartelle cliniche dei pazienti era un modo per indicare che il malato non era affatto malato ma era ebreo e questo “faceva fuggire a gambe levate i nazisti”, con lo stesso timore che loro stessi incutevano alle persone.
I "falsi pazienti"
I pazienti “affetti” da morbo di K venivano ospitati in stanze con porte ermeticamente chiuse, coperti ed isolati, e veniva chiesto loro di dare forti colpi di tosse per simulare i sintomi della malattia. Allo stesso tempo, i pazienti venivano attaccati a macchinari, c’erano farmaci e soluzioni proprio come accadeva per il trattamento delle grandi malattie infettive.
Alcuni storici ipotizzano che furono salvati poco più di un centinaio di pazienti, benché non vi siano dati certi. Per chi non conoscesse il quartiere di Roma teatro di questa epidemia salvavita, è bene ricordare che il quartiere ebraico è piuttosto vicino all’isola Tiberina e questo ha contribuito al piano di Borromeo. Si stima che si sia sparsa la voce a partire dal rastrellamento del 15-16 ottobre del 1943 e che, da allora, le persone si recassero di nascosto al Fatebenefratelli per farsi ricoverare. Fondamentale fu anche l’aiuto di un suo collaboratore, il medico di origine ebraica Vittorio Emanuele Sacerdoti, nipote del fisiopatologo Marco Almagià, maestro di Borromeo, che lavorava al nosocomio della tiberina sotto falsa identità.
Episodi simili nel corso della Storia
È noto almeno un caso di episodio simile, avvenuto nel ghetto di Varsavia, altro luogo ahimè ricco di tragedie: due medici inventarono un metodo per creare falsi segni diagnostici di un’epidemia di tifo per bloccare l’arruolamento obbligatorio di forza lavoro e le deportazioni. Si trattò di un’epidemia mimata inoculando prima del test diagnostico operato dai nazisti, che allora era la reazione Weil Felix, gli stessi antigeni che si legano agli anticorpi dei soggetti affetti da tifo dei ratti o endemico.
Una lezione per giovani e futuri medici?
L’esempio di uomini come Giovanni Borromeo può essere di ispirazione per i futuri medici e i giovani in generale? Si tratta di una domanda molto difficile, a cui devo rispondere ricordando che le storie virtuose sono uno strumento parzialmente efficace e non risolutivo. Mi spiego.
Studi cognitivo-comportamentali ci dicono che la popolazione, e con essa anche gli studenti di medicina, si suddivide su questi temi etici in almeno 3 categorie: gli altruisti (20%); quelli più orientati alle prove di efficacia, che potremmo definire razionalisti (60%); e poi coloro che sono più individualisti (20%). Per i primi, queste storie sono efficaci, e confermano la loro naturale tendenza ad essere empatici, ma per le altre due categorie, queste storie hanno un effetto positivo solo nell’immediato, nel breve termine.
Se rivalutate a distanza, le persone dimostrano di tornare al loro atteggiamento, o ‘natura’, di origine. Pertanto, insistere solo con l’uso delle narrazioni o degli strumenti provenienti dalle arti, tipico di certa parte delle Medical Humanities, per migliorare la sensibilità e la dimensione umana della medicina, ha degli effetti flebili. Per questo, bisogna utilizzare altre forme didattiche, e in particolare gli strumenti cognitivo-comportamentali, che vadano oltre le storie.
Questo non è il loro unico scopo, naturalmente. Le Medical Humanities possono essere utili anche per collocare le scoperte mediche nel tempo e dimostrare quali sono gli sviluppi dei valori etici in gioco, le dinamiche sociali e soprattutto l’evoluzione del metodo scientifico. In tal modo si offre agli studenti un’idea dinamica del momento della storia e della scienza in cui iniziano la propria carriera, su cui gli studenti generalmente non riflettono. Raccontare come in passato siano avvenuti cambiamenti di paradigma, sia nei valori sia nelle innovazioni biomediche, li aiuta a capire qual è il metodo del progresso etico e scientifico: la Storia resta uno strumento utile per proiettarsi con maggiore consapevolezza verso il futuro.
Infine, penso che le Medical Humanities aiutino a capire l’importanza dell’alleanza terapeutica, contribuiscano alla formazione valoriale e al rispetto del paziente, accanto alla formazione tecnico scientifica, che però basa la sua formazione sulle technicalities. Per converso, non esiste ad oggi, e forse non può esistere in generale, un manuale che migliori il rapporto medico-paziente o trasmetta i valori: questo è un percorso lungo che ha a che fare anche con il dolore e, talvolta, la morte e che richiede dimostrazione empirica, oltre che strumenti cognitivi, di come questo rapporto possa aumentare l’efficacia delle terapie e la cura dei pazienti.
Intervista a cura di Federica La Russa, medical writer.